Benjamin Clementine e una visita a New York.
Per un inglese l’ingresso negli Stati Uniti sembra rappresentare uno choc più grande di quello che saremmo portati a pensare, tenuto conto dell’affinità della lingua e delle radici comuni. Se fino a oggi l’esempio più lampante era il legal alien di Sting in Englishman in New York, oggi Benjamin Clementine rincara la dose. Una visita negli States, con conseguente Visa d’ingresso, lo avrebbe indotto a vedersi come “an alien of extraordinary abilities”. E a fargli immaginare le molte storie presenti nel disco.
I Tell A Fly: un disco fra politica e autobiografia per Benjamin Clementine
Fin qui niente di strano. Il giovane musicista inglese con un passato di artista di strada a Parigi e un Mercury Music Prize 2015 (il premio al miglior album britannico dell’anno) con il suo fortunato debutto At Least For Now, ha infatti dichiarato che le origini di I Tell A Fly sono da ricercarsi nella sua storia personale, nel suo tentativo di comprenderla, insieme al mondo intorno a lui. Ottimi propositi, non c’è che dire. Ma dopo l’introduzione di Farewell Sonata, che sembrerebbe condurci tra le medesime ballad struggenti dell’esordio, improvvisamente ci ritroviamo catapultati nell’universo barocco e istrionico di God Save the Jungle, con tanto di coro a orchestra ad esasperare il pathos dell’assunto (che prende spunto dalle immagini del campo profughi di Calais).
Le scelte sonore di Benjamin Clementine non convincono
Musicalmente le scelte sembrano parecchio discutibili. In bilico tra prog, art-rock e minimalismo impressionista (Quintessence), Clementine non riesce mai a non far rimpiangere i suoi predecessori di genere. Anche quelli fuori portata come Nina Simone ad esempio. Tutto l’album si sviluppa come una pièce teatrale (è sempre Clementine a dirlo), ma tra il disastro siriano di Phantom To Aleppoville e l’invocazione di By The Ports Of Europe, alla fine la sensazione è di assistere ad uno spettacolo in cui ci si è dimenticati di alzare il sipario.
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