Cronaca di una selvaggia mutazione. Ovvero di come David Robert Jones divenne David Bowie e fu per sempre una Rock ‘n’ Roll Star!
C’è, alle volte, lungo la storia di un artista, o forsanche, più semplicemente, di una donna o un uomo, un momento baciato dal sole, un luogo, una data o un’ora fatati nei quali capita di imbattersi nientemeno che nel destino. Accade allora di trascendere dallo stato materiale di quel che si è alla sostanza non deperibile di quel che saremo per sempre. Agli occhi del mondo, se non di noi stessi.
Quando va bene, questo fortunoso ed individualistico zeitgeist può assumere la sembianza, inattesa quanto antropomorfa, della gran botta di culo. O, a essere meno ruvidi, di una polaroid lasciata cadere nel precipizio del futuro dal grand hotel della fortuna. Si potrà stropicciare e graffiare quell’immagine quanto si vuole, ma non stingerà più.
Questo momento, nella cultura e nel linguaggio della popular music, assume una forma meno spirituale, ma non di meno non sciattamente materialistica, che più gli è propria e meglio gli si confà. È proprio lì, in quell’inafferrabile e pure preciso momento, che gli Elvis Aaron o i David Robert Jones subiscono una metamorfosi non reversibile. Da creature mortali, da poco noti ammassi di carne e anima divengono da allora noti al mondo, come rock ‘n’ roll star. Ed è lì, sempre lì, che si fanno e restano, una volta e per sempre, Elvis o, che è quel che più ci tocca qui, Bowie. Lo specchio di Alice si attraversa, ma all’Ade del successo perenne si può scendere una volta sola, non è ammesso tornare mortali, non è ammesso tornare tra i mortali.
Top of the Pops
Per David Robert Jones quel momento dorato è l’apparizione (la terza per lui) alla popolare trasmissione britannica della BBC “Top of the Pops”. È il 6 luglio 1972. Starman, singolo nei negozi già dall’aprile di quell’anno, sta incontrando un buon successo. Ed è la prima volta, dai tempi di quella Space Oddity che Bowie aveva lanciato proprio sul palco di “Top of the Pops” nel 1969.
Quella prima esibizione, trasmessa il 9 ottobre, aveva spedito, per davvero e per sempre, il tossico Major Tom in orbita e al quinto posto della classifica britannica. Nessun singolo di Bowie farà meglio di così e nessuna canzone sua conoscerà mai più una così capillare penetrazione nella cultura di massa. Eppure David Bowie, capelli ricci e lunghi, che suona intento lo stilofono (sì, lo stilofono) accompagnato dall’orchestra della BBC, il giorno dopo questo lampo televisivo non potrà, come il messia musicale di Star “crollare dal sonno a notte fonda come una star del rock”. Tornerà ad essere quel che aveva tentato, fallendo: un epigono della cultura hippie, non privo di talento e di qualche sprazzo di genio, che vuol spiccare il volo ed annaspa.
Non basteranno The Man Who Sold The World né Hunky Dory. Dovrà lisciare i capelli, Bowie, cospargerli della polvere d’oro di Starman e salire sul palco avvolto di trucco e dalla tela dei suoi ragni marziani, aspettare tre anni e buttare le sue prime anonime prove di solista. Dovrà aspettare il 6 luglio 1972 perché tutto cambi, e, dopo di allora, tutto possa restare com’era diventato.
David Bowie – Rock ‘n’ Roll Star!
Rock ‘n’ Roll Star!, cofanetto che raccoglie outtakes e performance inedite di David Bowie (parlare di inediti veri e propri equivarrebbe ad esagerare assai) ci vende, e il prezzo è un po’ caro, una chiave per aprire questa porta. Questa ipnotica iterazione di brani, abbozzi, registrazioni casalinghe, versioni alternative e radiofoniche, è tutta comprese fra le galassie musicali di The Man Who Sold The World (1970) da un lato e Aladdin Sane e Pin Up (1973) dall’altro. Ma ogni singolo frammento è anche, e prima di tutto, una pagina strappata al ritratto dell’artista da cucciolo, di quell’artista che sarebbe diventato di colpo e per sempre adulto il 12 luglio 1972, data d’uscita di The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars. Passando per quel crogiolo di energie musicali in liberà, di spinte e controspinte, che è Hunky Dory e che, proprio in Aladdin Sane, sarebbero di lì a poco tornate ad esplodere.
In questi cinque cd (più un blue ray), se non ci si vuol procurare l’edizione in vinile, ancor più pitonescamente seducente, Ziggy la fa da padrone, e come potrebbe essere altrimenti. Quel che colpisce però, più ancora del processo di approssimazione al risultato finale, è il dispiegarsi di una creatività che, allo stato brado, si libera in quel quadriennio lungo strade diverse se non contrapposte.
Prima del Glam
Si sprigionano sentori chiaramente soul: Lady Stardust, nella versione che qui in più soluzioni si ascolta e che non prevede ancora il falsetto, è in tutto e per tutto una soul ballad, che riporta agli amori non troppo lontani di un giovane sassofonista. Altri umori grondano distintamente da un hard rock visionario, ruvido e vagamente zeppeliniano, precipitano direttamente dai cieli mitici e violenti dell’uomo che si vendette il mondo a percolare le fibre di Ziggy Stardust o di Suffragette City. Altri, ancora, sono chiaramente intrisi di rock ‘n’ roll: Hang On To Your Self, certo, ma anche, a suo modo, Star, il cui testo, assai più del disegno musicale, fotografa in pieno la “selvaggia transizione” in atto. Privi della patina dorata di una produzione sapiente ed astuta, tutti i brani tornano parlare con sincerità la lingua del loro tempo e del molteplice, convulso mondo interiore del Bowie di quel tempo.
Cosa accade dunque? Accade che, almeno chi scrive la pensa così, non si può avere in sorte di incontrare il proprio destino se non si conosce il segreto di strappare il crine di cavallo del proprio tempo. E, se si è un cantante pop, tocca restituire quel filo impalpabile sotto forma di una sfolgorante pioggia musicale, pensata prima di tutto e proprio per loro, i teenagers, che faranno esplodere l’Hammersmith Odeon di Londra per applaudire e piangere, il 3 luglio 1973, alla morte vera e presunta di Ziggy.
Cogliere lo spirito del tempo per sublimarlo
Quel crine è per l’appunto, nell’anno di grazia 1972, la moda del glam, che fa impazzire gli adolescenti inglesi e di mezzo mondo. Bowie non crea il tessuto sonoro del glam, non lo inventa, perché nell’universo sonoro di Bowie nulla si crea, nulla muore, ma tutto si trasforma. Bowie, genio assimilatore quanto mai altri, non inventerà mai nulla (men che meno l’elettronica), ma si siederà sempre da sovrano, e come nessun’altro, sull’esistente, un attimo prima che questo si faccia polvere o esploda; organico – a partire dal 1972 fino a Let’s Dance – ad una generazione che di volta in volta si vorrà perdere nella favoletta apocalittica e sessuata di Ziggy, nel funk soul americano di Young Americans, nell’elettronica berlinese o che vorrà solo e soltanto ballare.
È per l’appunto il glam lo spirito di quel tempo e di quell’anno 1972, col suo vestito strizzato, sgargiante e attillato, le sue chitarre che suonano come cellophane stropicciato; è il glam il minimo comune denominatore sonoro ed evocativo di un’ispirazione che corre in mille rivoli diversi e trova in questa veste un po’ stretta, in questa camicia di forza sfavillante, un impareggiabile vestito, adatto ad ogni festa. Comprimendo e trattenendo, a noi è sempre parso, un’energia potente e diversiva a tutto beneficio di un’omogeneità imposta, per quanto impareggiabile, di risultato artistico. Che quel fuoco sia rubato ai T-Rex e a Marc Bolan o alle Dolls, poco o nulla importa e nulla conta. Padrone del fuoco è di chi lo alimenta, non chi lo scopre. Soprattutto, il fuoco è di chi trova le parole per dire al mondo che è suo, perché sa marchiarlo a fuoco di sé.
Oltre Ziggy
Se Ziggy è il punto di equilibrio fra tensioni creative diverse e opposte miracolosamente raggiunto ed impossibile da replicare, Pin Ups non splende forse per i risultati d’arte, ma è una lacrima, una delle poche, scivolate giù del ciglio severo di Bowie, un saluto lasciato cadere dai palchi americani su cui troneggia Aladdin Sane ad un se stesso e ad una Londra guardati con tenerezza e disincanto, e che non esistono già più: la Londra dei mod, dei club, degli Who, degli esordi come sassofonista soul, la Londra del tempo ormai svanito in cui David Jones non aveva timore e vergogna del fratello amatissimo, che lo introduceva nei cunicoli della notte e del jazz della capitale britannica.
Aladdin Sane è già tutta un’altra storia. La mutazione selvaggia è avvenuta, l’equilibrio di Ziggy è saltato, le pulsioni creative del Bowie di quegli anni tornano in libera uscita: si spezza l’attore, ma anche la tela. Il vestito è già, dopo un anno, troppo stretto, o chi ci deve entrare è troppo cresciuto, che fa lo stesso. La miscela perfetta non tiene più, il desiderio dello strappo è più forte dell’abilità dei sarti che lo cuciono. Aladdin Sane, che riprende le fila della fluida natura oscillatoria di Hunky Dory, ma fatta più matura e più densa e macerata nelle essenze dissolutorie del glam, agli occhi di chi scrive, passato oltre mezzo secolo, appare cresciuto di misura, e, oso dire, creativamente superiore, pur nella sua irresolutezza complessiva, a Ziggy. Aladdin Sane segna la morte più che di un personaggio, del suo bagaglio di trucchi e di maschere di scena, perché la cultura giovanile sta già cambiando, e con essa i gusti, e con loro Bowie.
Cosa aggiunge Rock’n’roll Star! alla storia di David Bowie?
Rock ‘n’ Roll Star! svolge bene il compito di chiave privilegiata e semplificata per unire i puntini di un percorso artistico quale abbiamo provato a delineare e sintetizzare. Naturalmente non si può tacere che questo progetto editoriale resta prima di tutto quel che è. Un modo elegante e raffinato per rapinare quasi duecento euro, in smoking e papillon, a persone fragili, come il sottoscritto, che non possono fare a meno di piegare le ginocchia al sentire la versione demo di Soul Love, con la sola chitarra che accompagna una voce rotta, che canta dal cuore anche le parti di sassofono.
Ma Rock ‘n’ Roll Star! è, alla fine dei salmi, anche un racconto convincente, la narrazione per sovrapposizione ed approssimazione di suoni, di un’epifania, del manifestarsi, sotto il tocco di mani sapienti e convergenti (da Tony Visconti a Mick Ronson e ad altri mille) di una vocazione all’arte pop quale di rado capitò di vedere nel secolo scorso, che pure ne abbondò.
“I could play the wild mutation as a rock & roll star” canta Bowie in Star. E sia come sia, davanti a questa selvaggia, repentina mutazione, e al cospetto dei suoi frutti dorati e dipinti, si resta ancor oggi vinti e ammirati.
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