Il compositore e chitarrista Don Antonio cambia prospettiva e atmosfere con La Bella Stagione.
Dopo una vita passata a comporre musica strumentale con i Sacri Cuori e a mettere la sua chitarra al servizio di personaggi come Alejandro Escovedo, Dan Stuart e Hugo Race – per non citare che le collaborazioni più durature – Don Antonio, al secolo Antonio Gramentieri, si cimenta con il songwriting e con il canto.
Per la verità lo aveva in parte già fatto con il disco precedente, l’omonimo Don Antonio, ma in maniera completamente diversa: il disco era infatti marcatamente caratterizzato dal suo amore per la cumbia e la musica centroamericana in generale e non a caso i testi dei pezzi cantati erano in spagnolo. Con La Bella Stagione, Don Antonio ci spiazza cambiando completamente prospettiva e atmosfere.
Un disco e un libro
Innanzitutto i testi sono in italiano e sembrano attingere a piene mani alle esperienze dirette dell’autore. Intendiamoci: non siamo certo di fronte a un’introspezione ripiegata su se stessa quanto piuttosto a un bagaglio di vissuto anche “sociale” nel quale ognuno può ritrovare tratti comuni. Non a caso il disco è uscito insieme ad un omonimo libro di racconti nel quale queste caratteristiche sono ancora più evidenti.

Già il titolo sembra alludere ad un tempo passato che venga riconosciuto e valutato come “migliore” di quello che stiamo vivendo. Attenzione però: non stiamo parlando di un laudator temporis acti capace solo di cominciare i suoi discorsi con un “ai miei tempi” o qualcosa di simile. Antonio sa bene che quei tempi non erano poi così uniformemente “dorati”; e sa altrettanto bene che buona parte di quella nostalgia è dovuta al fatto che quelli erano i tempi della giovinezza perduta. Brani come Acceso, Batticuore, La Bella Stagione e Distanza esemplificano a mio parere abbastanza bene questo genere di pensieri.
Don Antonio – La Bella Stagione: i collaboratori e la musica
Musicalmente il disco è piuttosto vario, pur all’interno di una cifra stilistica sostanzialmente unitaria. Molto sfumate le ascendenze “morriconiane” che hanno caratterizzato la prima parte della sua vicenda artistica, specialmente nel periodo Sacri Cuori; ben presente invece il blues ( si ascolti, ad esempio, il “talking” di Fuoco). Ma Antonio mostra di aver ricevuto, e ben assimilato, anche le “lezioni” di alcuni dei songwriter con cui ha lungamente condiviso il palco, Escovedo e Stuart su tutti. E anche di qualcuno con cui non ha, a quanto mi risulta, mai collaborato, ma che a quanto pare ama molto come Tom Petty. In qualche brano, come ad esempio Ancora Di Me, pare di sentire anche echi di quello che è certo il più “americano” dei cantautori italiani: Francesco De Gregori.
A un primissimo ascolto sembra che la voce non sia il punto di forza del disco. Ma, come dico spesso, a cantare con una “bella voce” son buoni tutti; l’importante è saper usare bene quella che si ha e su questo – il paragone non sembri troppo irriverente – Dylan docet. E Antonio sa usare bene la sua, con un registro spesso da crooner sussurrante e privandola di quella deliziosa inflessione romagnola che caratterizza il suo parlato “privato”. Doveroso poi citare chi lo accompagna in questa riuscita impresa: la precisissima sezione ritmica di Roberto Villa (basso) e Dani Marzi (batteria), le tastiere mai invadenti di Nicola Peruch, le chitarre di Arianna Pasini (deliziosa anche come backing vocalist). Su Don Antonio come chitarrista – e qui in veste di polistrumentista – non serve aggiungere altro.
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