Inatteso Ezra Furman: Goodbye Small Head.
Chi scrive (cioè io) è pieno di preconcetti (di gusto, e forse anche d’altro, vai a sapere). Un po’ per colpa sua (cioè mia), un po’ no, mi piace credere. Il problema sta, ho paura, nell’essere convinti di sapere quel che in musica ci piace e, diciamo, su cui poi ci concentriamo sopra con fin troppa intensità.
Ezra Furman, per dirne una. Chi scrive ama molto Ezra e si è convinto, all’ascolto ripetuto del precedente bellissimo All Of Us Flames (2022), che la strada di Furman avesse da essere quella della rilettura in chiave personale e moderna della migliore tradizione del songwriting americano.
Ora, cosa questo in pratica dovesse determinare in Ezra non ne avevo la benché minima idea, né ce l’ho oggi, ma mi piaceva pensare fosse giusto così e che splendide ballate come Point Me Toward The Real indicassero quella strada, imbottite come erano di una forza di narrazione tutt’altro che comune.
E però Ezra Furman non la pensava proprio cosi, si vede con Goodbye Small Head. E aveva ragione.
Non che una profonda corda autoriale non sia pizzicata come solo Furman sa, con tre ballate sghembe e stralunate e splendide, che piegano le ginocchia con la rassegnata stanchezza di Veil Song, con la sghemba poesia di Strange Girl, appiccicata al muro di camera fra un poster dei Doors e uno Nick Cave, o con la sorridente, malgrado tutto, cantilena acustico-elettrica di You Hurt Me I Hate You. Schegge d’anima, che sembrano scritte guardando fissa negli occhi la luna dolorosa di Daniel Johnston, sempre seduto li, in quell’angolo buio, quando la lingua bette dove più il dente duole.
Non mancano, no, ed è un bel rendere grazie che ci siano questi momenti che toccano un’eterna americana, ma è uno spirito schiettamente rock, e direi garage, ma direi addirittura rock ‘n’ roll che dilaga nel disco e fa aggallare, maturati e invecchiati al punto giusto, antichi amori musicali di Ezra. E che rende questo disco divertente, parecchio, e bello, quanto il predecessore, del quale è più continuo e solido (è andata cosi).
Jump Out e Power Of the Moon, ma soprattutto le tiratissime You Mustn’t Show Weakness e la finale, strepitosa I Need The Angel, sono la quaterna d’oro di questo disco che pecca, per il pochissimo che pecca, forse soltanto quando resta sospeso, appeso ad una via di mezzo appena spolverata d’elettronica, che dà esiti decorosi sì ma opachi, come Grand Mal e Sudden Storm. Poco, pochissimo male, una pelle gia staccata che si sta seccando sui rovi. Perché bellissime sono, invece, Submission, impastata della bocca amara di notti sveglie e di solitudini sulla sponda del letto, e la progressione fiduciosa di chi conosce anche speranza e pietas, di A World Of Love And Care.
Che dire, dunque., e che pensare
Chi scrive è da oggi convinto che da qui in avanti che la strada maestra per Ezra Furman post Goodbye Small Head sarà il rock, il garage, e finanche il rock ‘n roll. Come quasi sempre mi accade coi tarocchi musicali, sbaglierò. E sarà comunque bello continuare a non capirci un cazzo, se le ricompense saranno di questo livello. Altrimenti no, che patire non ci piace.
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