Il decimo, ‘festoso’ album dei Foo Fighters.
“L’attesa è finita. E’ uscito il nuovo disco dei Foo Fighters” scriveva tre giorni fa il sito di una nota testata nazionale. In effetti i Foos sono una storia che è sempre bello ri-raccontare. Negli anni ’80-’90 Dave Grohl è il batterista dei Nirvana che, in un triste giorno a tutti noto, si ritrova senza un amico e senza band. Mette allora in piedi i Foo Fighters, prima come ‘sfogo’ per le sue canzoni tenute nel cassetto, poi come gruppo vero e proprio. La formula-base è quella dei Nirvana di maggior successo, ovvero composizioni pop su chitarre distorte, ma con un approccio più solare. E funziona alla grande-
I Foo Fighters sempiterni campioni del rock
Ammettiamolo, i Foo Fighters non hanno mai lasciato cose davvero memorabili, eppure sono diventati una sorta di istituzione alt-rock. Stadi pieni, dischi molto venduti, una pletora di premi Grammy, in tempi recenti la partecipazione alla cerimonia d’insediamento di Joe Biden e furbi accordi promozionali con Spotify. Diciamo che a questo punto il prefisso “alt” fa un po’ ridere se non fosse in ricordo delle ormai lontane origini grunge.
Medicine At Midnight è stato presentato come il “saturday night party album” dei Foos. In realtà, questa decima pubblicazione del gruppo non è poi così diversa dalle altre (ad esempio da Concrete and Gold del 2017), per quanto qualche ritmo dance in più ci sia. La cosa che conta è che, ancora una volta, si ascolta un po’ di tutto all’interno di una rassicurante matrice rock onnicomprensiva.
Cosa si ascolta in Medicine At Midnight
Cloudspotter ha accenni funk tipo Rolling Stones anni ’80 (che però avevano un cantante migliore). Waiting On A War parte come acustica e cantautoriale per poi venire invasa dall’orchestra e dalle connotazioni sociali (a Biden piace di sicuro). La title track è una power ballad giustamente notturna, perfetta per chi ha qualche annetto e comincia a rimpiangere i film con Patrick Swayze. Alle schitarrate provvede Holding Poison, mentre per gli hard-rockers c’è No Son Of Mine (il buffo è che sembra di sentir cantar “non sarà mai” e così viene in mente Vasco). Curioso, e paicevole, è il pezzo che sembra Fame di Bowie ma con il testo che dice Shame Shame. La conclusiva Love Dies Young ha un bel passo e la melodia più convincente del disco, peccato che Grohl non la canti benissimo – Bob Seger avrebbe fatto meglio, per non parlare del Boss. Insomma, tutto abbastanza buono, ma, come al solito, niente di eccezionale.
Dave Grohl viene descritto come un vero gentiluomo della scena rock. Forse è per questo che nei dischi dei Foo Fighters cerca di far felici tutti mettendoci un palpabile entusiasmo che è forse la ragione profonda del successo del gruppo. Il disco è breve e compatto, appena 36 minuti. Chi lo ha apprezzato può ricominciare ad ascoltarlo, chi resta perplesso non avrà sprecato troppo tempo. Dave Grohl è cortese anche con i suoi detrattori.
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