Un esordio sorprendente: Michal Gutman – Never Coming Home.
Pubblicato ormai diversi mesi fa (maggio 2024), comincia adesso a circolare più diffusamente anche in Italia Never Coming Home, primo album solista dell’israeliana Michal Gutman, attiva già da una decina d’anni con la sua band Whaling Snails. Il disco si fonda su una intrigante, e sovente inquietante, successione di poliritmie e, se ci si passa il termine, “polimelodie”, con le otto canzoni che lo compongono spesso quasi divise in due parti ben distinte, a produrre un effetto straniante ma tutt’altro che sgradevole.
Le canzoni e i testi
Si ascolti, ad esempio, la terza traccia Pigeon Hunt, dove a un tema spiccatamente rock fa da contraltare un intermezzo molto lento scandito solo da un arpeggio di chitarra elettrica “effettata” che accompagna i versi “I feel like a knife / I feel like a blade / I wish I could sing / the names of the dead”. Si muove al contrario Doing It Again, che parte con un quasi recitato su un ipnotico arpeggio di chitarra per aprirsi poi in un arioso pop-rock e ripetere questa alternanza fino alla fine, scandita dai versi “Maybe I struck a deal with the devil / told him I’ll never be by your side / maybe I struck a deal with the devil / ‘cause us we weren’t supposed to be alive” per terminare con una sorta di sommesso grado di dolore: “I’m gonna miss you today”. Già, perché l’amore è il protagonista quasi incontrastato del disco. Ma attenzione, niente di sdolcinato, è un “amore ai tempi del colera”, forse l’unico possibile in questi tempi calamitosi: “But that hungry love still blows inside / like the story’s wolf” canta Michal quasi alla fine di A Second Plan. A questa alternanza di ritmi che caratterizza l’intero disco fa eccezione il brano finale Running Out Of Luck, lenta e delicata elegia che sembra voler chiudere con una nota di speranza e di sommesso ottimismo: “Let’s do it again / Let’s do it again: / I’ll be the river / You’ll be the boat I carry”.
La voce di Michal Gutman in Never Coming Home
Michal Gutman sa come si scrivono le canzoni e sa come rivestirle di melodie e arrangiamenti adeguati, che alternano momenti di lirico minimalismo, spesso affidati ad una sobria elettronica, ad altri dalla costruzione assai raffinata, comunque mai “debordanti” e sempre funzionali alla valorizzazione dei testi. Un discorso a parte lo merita la voce dell’interprete. Una voce assai duttile, capace di mostrare potenza e raffinatezza di sfumature. Ci era stata presentata come una sorta di incrocio tra Beth Orton e Kristin Hersh e certo non è difficile sentircele entrambe: a nostro modesto avviso più la seconda della prima. Ma specialmente in brani come la già citata A Second Plan e soprattutto I’m The Walker la sorprendente, quasi virtuosistica, alternanza tra toni gravi e acutissimi, veri e propri indizi di un tormento interiore che sembra sfociare anche in sofferenza fisica, non può non richiamare alla mente un’altra Kristin: quella Kristin Michael Hayter, forse ancora più nota sotto il moniker di Lingua Ignota, che della sofferenza interiore ha fatto – specialmente nell’ultimo disco Saved! – il suo “marchio di fabbrica. Nell’attesa di auspicabili prove future della musicista israeliana, “buona la prima!”.
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