The Highest In The Land il disco postumo di The Jazz Butcher/Pat Fish
Che cosa strana sono i dischi postumi… Come si fa ad ascoltarli ed esprimere un parere senza che l’onda dell’emotività non influenzi le parole che si useranno e le orecchie che ascolteranno.
The Jazz Butcher sono stati una creatura originalissima nel panorama indie inglese. Esordirono nel 1983 con un album timidamente accolto, ma già nel secondo lavoro, A Scandal in Bohemia, fruirono della collaborazione di David J e Kevin Haskins (che poi son fratelli e basso e batteria dei Bauhaus), elemento che contribuì, se non altro, ad accendere un occhio di bue sul loro particolarissimo pop.
La dipartita di Pat Fish, avvenuta verso la fine del 2021, principale mente della band che è spesso stata solo una estrinsecazione di una carriera solistica mai dichiarata, ha quindi segnato la fine di una storia che, con un seguito di nicchia, ha attraversato almeno un trentennio. Diverse sono state le incarnazioni ma sempre foriere di un linguaggio molto personale e ricco di colti riferimenti, che poi è la cosa che a me è sempre garbata maggiormente negli ascolti; così imparo sempre qualcosa di nuovo.
Musica e idee di The Jazz Butcher – The Highest In The Land
Arriva quindi adesso questo The Highest In The Land (Tapete Records) con la funzione di commiato (sempre che non sia invece il primo tassello di operazioni necrofonofiliache che tanto rendono all’industria), ma assolutamente privo di qualsiasi sentore di mietitore.
Nove canzoni che si potrebbero ascoltare uscire dagli amplificatori di piccoli caffè parigini o in bucoliche esposizioni fin de siècle, sprazzi di delicato jazz (ineluttabile dato il moniker) e, ovviamente, testi che raccontano short stories come nella migliore tradizione letteraria da Carver in giù.
Chi altri oggi descriverebbe, con prevalenza acustica e chiari riferimenti ad un passato rimpianto, la propria joie de vivre? Chi oggi userebbe allitterazioni raffinate per accompagnare un refrain affatto scontato? Ecco che forse quello che citavo nell’incipit si presenta bussando forte: come avrei ascoltato queste canzoni se questo fosse stato un ennesimo capitolo di una congrua discografia e prodromo di future altre emissioni?
Ebbene, più ascolto queste canzoni più dimentico la sensazione fuorviante perché, da sempre amante di un pop mai scontato, dove anche solo un suono, che poco c’entra con la composizione, mi fa esultare, mi rimetto, a fine ascolto, alla ricerca di un senso rispetto ad un’epoca che temo sparirà, dove gli acquarelli prevalevano sui Pantone e dove l’illuminazione sul palco era l’unico effetto speciale.
Ciao ciao The Jazz Butcher
E allora via, di nuovo si riparte sulla piccola giostra Jazz Butcher, a volte con una paglietta sdentellata in testa, a volte agghindati come cowboys al tramonto, senza pensare a nessun futuro, vera premonizione del punk che fu, ma all’hic et nunc del piacere di perdersi in pellicole aurali, con uno sguardo rivolto alle nuvole ormai in overbooking della nostra adolescenza a 33 giri.
Be the first to leave a review.