Due dischi diversi, eppure simili, di mezzo secolo fa: Metal Machine Music di Lou Reed e The Köln Concert di Keith Jarrett.
Nel 1975 sembrava che il rock vivesse un momento di stagnazione, di innovazione interrotta. Secondo la mentalità dell’epoca la musica giovane doveva rimanere, appunto, giovane e quindi evolversi continuamente. È un’idea ormai superata, ma che all’epoca veniva data per scolpita nel marmo, o quantomeno nel vinile (paradossalmente, molti di coloro che ne facevano una bandiera avrebbero poi aborrito innovazioni come il punk e, orrore orrore, il rap).
È tuttavia indiscutibile che le pur ottime uscite dell’annata tendono a consolidare le posizioni acquisite, fatta eccezione per Horses di Patti Smith che apre nuove strade ancora da asfaltare. Anche in ambito jazz si percepisce una certa stilizzazione, con il mercato a spingere verso quel suono un po’ artificioso che ancora non si chiamava fusion e che avvicinava il settore al pubblico rock più inclusivo: il jazz-rock, appunto. Dunque molta bella varietà, ma anche un prevalere della maniera sulla ricerca.
In tale paesaggio di morbide colline si stagliano isolate due vette dalle sagome insolite. In ordine di pubblicazione si tratta di Metal Machine Music di Lou Reed e di The Köln Concert di Keith Jarrett. Entrambi doppi nella loro originaria versione in vinile, durano poco più di un’ora, sono suddivisi in quattro parti numerate progressivamente senza titoli specifici e contengono un solo suono: quello del pianoforte per Jarrett (oltre a gemiti e qualche battito di piede), quello delle chitarre ‘trattate’ tramite registratori per Lou Reed. Entrambi hanno fatto molto parlare di sé, anche se in modi ben diversi. Entrambi sono il frutto ceativo di due menti poco gestibili e molto egoriferite.
Lou Reed – Metal Machine Music
di Antonio Vivaldi
Quando lessi la recensione apparsa su Muzak nel settembre 1975 per la firma di Mauro Radice, pensai che quel Metal Machine Music dovesse essere un disco davvero fichissimo: “È impulso fisico spinto alle estreme conseguenze, il rigetto della parola per un processo biologico che coinvolge la mente e la lega al cervello, al corpo, e questo è l’atto ultimo di una mente e di un corpo fusi dagli allucinogeni e dalle droghe pesanti, dall’elettroshock che male o meno peggio dirige l’azione a un punto fisso”. Wow! Poi qualcuno mi disse che dopo cinque minuti di sofferenze zveniva voglia di tirare il vinile dalla finestra, che la musica non c’entrava niente con il Lou Reed che conoscevamo e lasciai stare. L’acquisto, più per curiosità che per altro, arrivò molto dopo, in occasione della pubblicazione in unico cd trascorsi 25 anni dall’uscita.
Nel frattempo avevo letto altre recensioni, fra cui questa di Mark Deming per il sito Allmusic: “Difficile dire cosa avesse in mente Lou Reed realizzando Metal Machine Music e, nel corso degli anni, l’artista ha fatto ben poca chiarezza su questo tema, pur avendo riassunto la faccenda in modo abbastanza esplicito nel corso di un’intervista: ‘Diciamo che chi arriva al quarto lato è più stupido di me’. A titolo di cronaca io al quarto lato ci sono arrivato. Ma mi hanno pagato per farlo”.
Il contesto in cui nasce Metal Machine Music
Nel 1975 Lou Reed vive un momento di buona fortuna commerciale. L’anno prima ha pubblicato Rock ‘n’ Roll Animal, gran disco dal vivo tra glam e hard rock, e lo svogliato Sally Can’t Dance, che però arriva al numero dieci nella classifica di Billboard (non succederà mai più neanche con dischi assai migliori). A inizio anno ha fatto uscire Lou Reed Live, sostanzialmente un buon volume due di Rock ‘n’ Roll Animal.
Ma “Lou Lou” è uomo e artista inquieto, consuma molta metanfetamina, si ritiene in un vicolo cieco artistico e non è contento del suo contratto con la RCA. Lavora a un nuovo disco di canzoni da intitolare Coney Island Baby, salvo poi far uscire il pugno nello stomaco intitolato Metal Machine Music. Sulle motivazioni di una scelta così provocatoria le opinioni divergono. C’è chi sostiene che si sia trattato di un “fuck you” rivolto alla casa discografica (che lo ritira dalla circolazione dopo poco tempo), ma anche a un pubblico che lo ha eletto a icona fin troppo ovvia del rock dissipato. Secondo altri è la sensazione di trovarsi in un vicolo cieco creativo a fargli recuperare la sua passione per suoni sperimentali, feedback e bordoni frequentati già con i Velvet Underground (Sister Ray, White Light/White Heat), ma anche a metà anni ’60 ai tempi della collaborazione con La Monte Young.
Quasi certamente in Reed agiscono entrambe le motivazioni e il progetto viene messo a punto nel suo appartamento newyorkese nel corso di due settimane creative e deliranti: ”Registravo le tracce di chitarra a diverse velocità giocando con il riverbero e usando accordature insolite […] Ciascuna delle due chitarre stava davanti a un amplificatore. Le chitarre andavano avanti in feedback all’infinito, come se fossero vive”. Un’idea delirante alla Edgar Allan Poe che viene trasferita pari al supporto discografico dove quanto prodotto da ciascuna coppia chitarra-registratore occupa un singolo canale stereofonico. Ovvero due suoni distinti che scorrono paralleli rendendo vivamente (s)consigliato l’ascolto in cuffia. Le quattro facciate durano ciascuna circa 16 minuti e si interrompono tutte bruscamente, giusto per non usare neanche la piccola pietà della dissolvenza.
Se Brian Eno descriveva la sua ambient come “musica che si può ascoltare oppure ignorare”, qui la musica è difficile sia da ascoltare che da ignorare. Anzi, secondo le reazioni più comuni, la si può rifiutare oppure odiare. Ma c’è anche chi ha fatto di Metal Machine Machine uno dei suoi album-feticcio, come Thurston Moore, futuro fondatore dei Sonic Youth, e altri musicisti avidi di sperimentazione.
Fra stridii, rombi, strepiti, spasmi, sussulti, frequenze impazzite si dipana un lavoro che si propone come brutale e ansiogeno. Eppure, se si sceglie di entrare in questo mondo tremendo per esplorarlo con un atteggiamento di disponibilità alla follia, di curiosità per il temibile, si scoprono infinite sfumature, si possono seguire occasionali fili sonori senza preoccuparsi di perderli perché tanto ne arrivano altri. E a volte pare di percepire qualcosa di simile a una melodia smarritasi in luoghi remoti. Un po’ come succede nei sogni, anche se qui si dovrebbe parlare di incubi. E forse perché la realtà odierna è ormai un incubo peggiore di Metal Machine Music, 50 anni dopo l’uscita, io al quarto lato ci sono arrivato. Contrariamente a Mark Deming di Allmusic non sono stato pagato, anche se un aperitivo offerto dalla redazione lo meriterei.
Keith Jarrett – The Köln Concert
di Danilo Di Termini
Non ho comprato il Köln Concert di Keith Jarrett quando venne pubblicato, il 30 novembre 1975. Ad essere precisi non lo acquistai nemmeno dopo e oggi mi ritrovo – io, fanatico del vinile – con una copia in cd arrivata chissà come. Comprai invece Blood on the Tracks di Dylan uscito il 20 gennaio di quell’anno mentre Roberto, il mio amico del piano di sopra, optò per Metal Machine Music di Lou Reed. In quegli anni coi soldi che giravano un disco ogni tanto era il massimo a cui si poteva aspirare e ci si ritrovava per incrociare gli ascolti: si comprende così perché, per molti anni, ho idolatrato Bob e ascoltato Lou solo nei Velvet.
Ma torniamo a Jarrett. L’ho visto più volte dal vivo in trio e una in piano solo, al Teatro Carlo Felice di Genova, il 30 ottobre 1996. Non ricordo un’esibizione memorabile: due lunghe suite, un bis, una versione di Over the Rainbow, un bisticcio con uno spettatore reo di essersi distratto e di aver disturbato l’artista (il concerto si trova in un box di quattro cd, A Multitude of Angels).
Ma a quel punto era troppo tardi, lo riconosco: nel tempo il Jarrett solitario e il Köln Concert si erano andati trasformando in una via di mezzo tra un culto per fanatici e l’ideale sottofondo per le più disparate circostanze conviviali (una versione aggiornata del Time Out di Dave Brubeck, per dire).
Io, un po’ per spirito di contraddizione, un po’ per genuina passione jazzistica, continuavo a preferirgli il Keith dello Standards trio, con Gary Peacock e Jack DeJohnette o quello del quartetto americano con il sassofonista Dewey Redman, Charlie Haden e Paul Motian. Posizione che peraltro ancora rivendico.
Il colpo finale era arrivato dal mio amato Nanni Moretti che nel 1993 aveva utilizzato un brano di quel Köln Concert per il piano sequenza in Vespa di Caro Diario (forse anche responsabile, perlomeno da noi, della stura di imitatori nostrani di quel pianismo intimo e fin troppo enfatico).
Così ammetto di aver ascoltato pochissimo quel cd e oggi uno dei dischi più venduti della storia del jazz mi suona da un lato quasi del tutto inedito; e dall’altro fin troppo risaputo, anche per le migliaia di parole che ne hanno descritto in ogni particolare la genesi e la presunta magia (ci sono anche un film di finzione, Köln 75 per la regia di Ido Fluk, e un documentario, The Köln Concert : le film documentaire, credo ancora in fase di realizzazione).
Ma dove sta la magia di The Köln Concert?
E siamo arrivati alla musica: ancora non riesco a farmi incantare dagli insistiti ostinati mescolati ai caratteristici gemiti che sarebbero arrivati nel tennis solo molti anni dopo (ma Glenn Gould nelle sue Goldberg Variations del 1955 già si lamentava…).
E nemmeno a lasciarmi avvolgere dalle spirali di note che richiedono un coinvolgimento totale, quasi mistico, in un rapporto in cui l’ascoltatore deve essere partecipe e consapevole, pena l’esclusione dalla cerimonia (nel senso della sua incomprensibilità). Ho sempre avuto la sensazione che ad un concerto (ma vale anche per la fruizione ‘privata’) di Keith Jarrett in solo, lo scambio tra l’officiante e l’uditorio debba essere totale; all’intensità del musicista debba necessariamente corrispondere la completa dedizione dello spettatore. Jarrett, per farti entrare nel suo universo, chiede l’esclusiva: e ammetto di non essere favorevole (o capace) di consegnarmi a una visione di questo tipo.
Mentre scrivo, ironia della sorte, a tre quarti del percorso il cd decide di saltare; niente da fare, è rovinato non riesco a concludere l’ascolto. È forse venuto il momento di comprare il doppio ellepi e fare pace con Keith?
Considerazioni su Metal Machine Music e The Köln Concert mezzo secolo dopo
Restano due dischi davvero senza tempo Metal Machine Music e The Köln Concert, perché nella loro nudità non risentono di contaminazioni legate a mode del momento nei suoni o nella produzione. Restano anche dischi impegnativi. Nel caso di MMM il problema è l’impatto contro lo stridente muro del suono brutalista. Per il concerto di Colonia la difficoltà sta nel seguire un fiume sonoro con una portata d’acqua che rischia di travolgere i disattenti. Sono opere essenziali, asciutte, come detto all’inizio, e al tempo stesso corpose. La differenza è che mentre la prima ha rischiato di (auto)distruggere la carriera di Lou Reed, la seconda ha lanciato quella di Keith Jarrett. Ma trascorso mezzo secolo, visto che si parla di due nomi-caposaldo nella storia della musica, la cosa ha ormai poca importanza.