Stan Ridgway ha di recente ricevuto il Premio Tenco 2016. In questo articolo John Vignola ripercorre l’affascinante epopea noir del musicista californiano.
E’ il 1980 quando un gruppo di Los Angeles esordisce con un album lontano dalle regole del rock dell’epoca, dalle etichette a tutti i costi, dai generi definiti. Si chiamano Wall Of Voodoo. Nel loro mini LP, dallo stesso nome, mettono a frutto la passione per gli horror e per il noir in maniera incandescente. Hanno già musicato qualche film di serie Z. Uniscono a un po’ di elettronica da rigattiere la passione per Ennio Morricone, amano i racconti in cui “finisce male”, come ricorda il loro leader, Stanard Ridgway, per gli amici e gli appassionati Stan. “Fin da ragazzino, mi sono messo in testa di cantare cose terribili e di coltivare la mia passione per gli strumenti strani”.
Stan Ridgway: storie che diventano canzoni
Stan è nato nella cittadina californiana di Barstow nel 1954. Suona con la stessa disinvoltura il Farfisa (un organo elettrico dal timbro riconoscibilissimo) e l’armonica a bocca. Canta con una voce tagliente. Che, nel corso del tempo, diventerà sempre più affilata e straniante. Preferisce “le botole da cui esce una brutta sorpresa, le paludi piene di zanzare” all’idea assolata e floreale che ci siamo fatti, per molti anni prima di lui, della West Coast.
I Wall Of Voodoo sono tutt’altro che un episodio casuale della sua carriera. Una carriera in cui la scrittura di storie diventa canzone. E viceversa, prima che entri in voga il terribile termine storytelling. Nel loro esordio potete incontrare un terrorista aereo (The Passenger), lande desolate (Longarm) e un po’ di disamore (Can’t Make Love). Rischierebbero di passare inosservati, se non fosse per una serie di concerti in cui “facevamo a pezzi – ricorda Ridgway – le ballate del folk infilandole in una elettronica da cavernicoli”.
I Wall Of Voodoo fra tecnologia e tradizione ‘rinfrescata’
Qualcuno si accorge della loro bravura e arrivano due album completi, Dark Continent (1981) e soprattutto Call Of The West (1982). Una pietra miliare per chi pensa che la musica statunitense, qualche volta, possa diventare letteratura. Un pezzo, Mexican Radio, sarà intonato da una parte all’altra dell’Oceano del pop, che forse non coglierà la sua originalità sghemba e quasi surreale. Mentre Lost Weekend cita gli spaghetti western di un futuro alternativo e senza scampo. Intanto, il rock si plastifica, un po’ dappertutto, ma la band usa ritmi seriali e la tecnologia dell’epoca per rinfrescare la tradizione.
Ridgway è il motore mobilissimo di tutta la faccenda. I riferimenti che la stampa comincia a cucirgli addosso citano Johnny Cash e George Orwell, lasciandolo abbastanza disgustato. “Ero un temerario: leggevo e ascoltavo di tutto, come ho sempre fatto, ma, quando suonavamo, venivano fuori cose che mi sembravano nuove, prese da chissà dove. Adoro Johnny Cash, ma non ho mai pensato a lui quando mi sono messo a scrivere canzoni”.
La storia maggiore dei Wall Of Voodoo finisce quasi all’improvviso, con Stan che trova un deserto di fronte a “richieste molto semplici: cambiare qualche strumento e non pensare più a far ballare il pubblico: mi interessava che le storie emergessero fra le note, e non che un’idea sonora, ripetuta all’infinito, mangiasse tutto il resto”.
Una carriera solista all’insegna del noir
La carriera da solista di Ridgway comincia da qui: siamo nel 1986, The Big Heat è un album straordinario, di scrittura semplicemente hard boiled, sulla scia, quasi dichiarata, di Raymond Chandler e Dashiel Hammett. Perdenti, cattivi, disillusi, sospesi fra passato e futuro. Protagonisti di pezzi in cui il folk, a volte addirittura il country, si incontrano con lo spirito dei tempi (leggi wave) e brilla di una luce foschissima. La musica segue il passato recente dell’artista, continua a giocare con gli spaghetti western e con un tex mex senza appartenenze definitive.
È da qui che parte la poetica di un autore di cui inizialmente si accorgono solo i cosiddetti giornalisti specializzati: il seguito, ancora più a fuoco, sarà sostenuto da un pugno di musicisti di altissimo livello. Marc Ribot alla chitarra, Steve Berlin al sassofono, Van Dyke Parks agli arrangiamenti orchestrali. Più struggente e fatale, Mosquitos non solo ha l’attenzione che si merita, ma diventa una pietra miliare per chi vuole fare del rock un riuscito contenitore di storie in cui la scrittura e i riferimenti letterari non stonano mai.
“Non so se mi si può definire uno scrittore: però so che sono le storie la cosa che mi interessa di più, le storie in cui nessuno vince e tutti sono un po’ sporchi. Per me, un tipo che ha cominciato a ‘leggere’ con la musica, è stato naturale unire alle vicende un’ambientazione sonora in cui minaccia, ironia e rock convivono abbastanza bene”. Partyball, nel 1991, chiude un percorso di fondazione poetica. Magari con qualche venatura crepuscolare e un po’ di maniera.
Una colonna sonora memorabile
Il fiume placido di dischi che seguiranno, dopo un’antologia, nel ’92, saranno su un filone che non ammette – ed è un bene – grandi deviazioni da una forma consolidata. Con alti memorabili (Anatomy, 1999, un vero e proprio thriller in musica), una nutrita serie di live gestiti direttamente da Stan (che nel frattempo ha aperto una sua etichetta personale) e qualche riuscito (e abbastanza difficile da reperire) omaggio alle canzoni degli altri. Ridgway ha la stoffa e l’attitudine dell’outsider. Di quello che, per esempio, partecipa alla colonna sonora straordinaria firmata Stewart Copeland. Rumble Fish (in italiano, Rusty Il Selvaggio, 1983) di Francis Ford Coppola. E che, molto modestamente, racconta di come “dopo tanti anni, suonare dal vivo e scrivere ancora sono esigenze che soddisfo con i tempi che servono. Ho conosciuto il successo del pop, con i Wall Of Voodoo: non voglio finire mai più in quei vortici”.
Di recente, nel 2012, Stan Ridgway ha pubblicato Mr. Trouble. Un lavoro in cui continua a seguire la strada che ha inaugurato in quasi perfetta solitudine. La stessa di chi, attraverso la musica, raggiunge la consapevolezza dello scrittore. Capace di usare la musica come un libro da scrivere e da far risuonare.