lou reed 2

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Un ricordo di Lou Reed, scomparso a New York all’età di 71 anni, con lo straziante commiato scritto da John Cale.  

di Antonio Vivaldi

Sabato scorso, un po’ prima di mezzanotte, al Teatro Goldoni di Livorno, in occasione del Premio Piero Ciampi, Bobo Rondelli  ha iniziato così la sua esibizione: “Ora faccio un pezzo di Lou Reed; il perché non lo so, però mi è venuto in mente e lo faccio”. Il pezzo era Femme Fatale,  suonato in versione carica e dolorosa, quasi fosse un saluto in musica. Lo era davvero un saluto, ma Bobo non lo so sapeva e nemmeno noi in platea.

Così ieri ci siamo persi  Lou Reed quasi non credendo a quell’annuncio del sito di Rolling Stone americano, apparso nel tardo pomeriggio del giorno in cui faceva buio più presto. Partono e arrivano telefonate, sms, post sociali e intanto affiorano le macchie di leopardo dei ricordi, così come risale un po’ di senso colpa privato per essere stato quello che, ai tempi di una radio libera soprannominata “Radio Reed”, sosteneva con aria saputella “John Cale è miglior musicista rispetto a Lou Reed”. Strano come la forza dell’emozione scardini i cassetti dell’oblio e così ecco farsi  nitida la foto mentale di un numero del 1975 della rivista italiana Muzak, in cui Nico diceva: “Lou is complex; gli hanno fatto l’elettroshock da piccolo e da allora la sua creatività è incontrollabile”.  Negli ultimi vent’anni Lou Reed non era più incontrollabile, era diventato un signore quasi snob che del vecchio stile di vita manteneva i modi un po’ sprezzanti e nelle interviste amava parlare soprattutto di chitarre oppure le piantava a metà se non gli piaceva la pronuncia dell’intervistatore. Non era più l’uomo delle viscere malsane di New York, si faceva ispirare da Poe e Wedekind e frequentava gente come il dissidente-presidente ceco Vaclav Havel o l’ex Segretario di Stato americano Madeleine Albright (leggenda vuole che i due siano stato zittiti dal palco da uno John Zorn furioso per il loro parlottare). Forse era semplicemente stufo di essere ancora considerato un teppista art-rock come ai tempi dei Velvet Undergroud o un decadente dissipato come ai tempi di Transformer e Berlin (in italiano qualcuno gli dette pure del nazista senza sapere che era ebreo). Tutte storie di tanto tempo fa, ma di cui  sarebbe stato bello provare a parlare con lui, visto che era in cantiere un’intervista (che, tra l’altro, pareva un bel segnale di salute in miglioramento). L’intervista non ci sarà; in compenso ieri sera, prima di cena, ho ricordato Lou Reed per un programma radiofonico condotto da John Vignola; l’ho fatto con le lacrime agli occhi, anche se era colpa della cipolla che stavo tagliando e avrei preferito essere commosso sul serio. Invece le lacrime sono state vere leggendo quello che ha scritto stamattina John Cale:

 

La notizia che temevo di più è niente al confronto del groppo che sento in gola e del vuoto che sento nello stomaco. Due ragazzi che s’incontrano per caso e 47 anni dopo continuiamo a litigare e ad amarci allo stesso modo; per l’uno la perdita dell’altro è incomprensibile. Nessun rimpiazzo possibile, nessuna possibilità di sostituzione virtuale o digitale… ora tutto si è spezzato, per sempre. Come molte persone con storie simili alle nostre, abbiamo trasferito gran parte dei nostri furori nel vinile, perché il mondo potesse coglierne un bagliore. Le risate che ci siamo fatti insieme poche settimane fa, mi ricorderanno sempre del bello che c’era fra di noi.  

reed cale 2

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