Murder Ballads | Tomtomrock

Le ballate assassine: quelle morti sempre vive.

Murder Ballads | Tomtomrock

 

Il legame fra il rock (ma anche il folk e il pop) e le murder ballads è saldo e duraturo. Possiede anche un’inevitabile componente di morbosità e un altrettanto inevitabile côté psicoanalatico: la violenza narrata come sublimazione della violenza agita.

Moltissimi sono coloro che hanno cantato antiche ballate assassine – i nomi citati  più avanti. ad esempio – o ne hanno scritte di nuove. Si va dagli Hüsker Dü ai Pearl Jam, da Warren Zevon a Elvis Costello, da Neil Young al bellimbusto Richard Marx. Per non dire di Nick Cave che a loro ha dedicato un intero album. In Italia si sono espressi sull’argomento figure al di sopra di ogni sospetto come Sergio Endrigo e il Quartetto Cetra.

Dunque un argomento foscamente fascinoso che verrà trattato in diverse puntate di questa rubrica. Partiamo con le ballate archetipiche, le storie grondanti di sangue o ansia che appartengono al nostro passato comune, alla notte del nostro inconscio collettivo. E che, a volte, risalgono alla luce del giorno in un campus universitario o in un villino  borghese…

Le origini della ballata

“Le origini della ballata tradizionale sono avvolte nell’oscurità. A un certo punto nell’evoluzione di ogni società la ritualità collettiva ha dato vita a forme di arte tragica che informano l’umanità della sua finitezza e, al tempo stesso, tengono viva la speranza della trascendenza e, persino, indicano la strada verso un paradiso terreno. In questo senso la ballata tradizionale britannica è l’equivalente della tragedia greca e i suoi esempi migliori posseggono la grandezza mitologica del dramma eschiliano. Nelle isole britanniche il mito tragico ha ricevuto la sua espressione esemplare nella forma della ballata tradizionale […].”

E’ quanto scrive Maynard Solomon nelle note di copertina dell’album The Joan Baez Ballad Book. Qualche studioso ha aggiunto che le ballate, e in particolar modo le cosiddette big ballads rappresentano l’indiscussa aristocrazia della musica tradizionale. Anche perché, aggiungiamo noi, sono quelle più sovente manipolate, nel bene o nel male, da interventi colti o presunti tali. All’interno delle grandi ballate con i loro fantasmi dolenti, banditi gentiluomini o amori destinati all’infelicità, le murder ballads rappresentano il piacere proibito. Sono il viaggio da spettatore nel lato selvaggio della vita, che evidentemente ammaliava l’ascoltatore tanto 500 anni fa quanto oggi.

 

Tom Dooley

A supporto di tale tesi, e per portare il discorso nella nostra epoca, eccoci nel 1958 e nella ricca e spensierata America del periodo post-bellico. In quell’anno  il singolo Tom Dooley, inciso dal Kingston Trio, vende oltre 3.000.000 di copie negli Stati Uniti. Non è un ormonale rock’n’roll di Elvis, non è una melensa ballata di Pat Boone. E’ la storia, basata su una vicenda di cronaca, dell’omicidio, datato 1866 di una donna incinta ad opera dell’amante, un ex soldato confederato (che verrà impiccato due anni dopo). E’ un testo a dir poco stringato, come accade sovente a narrazioni che, passando di mano in mano. perdono ciò che è superfluo. A volte anche di più, con il risultato di rendere ardua la comprensibilità della vicenda. Poco o niente si dice della vittima,  quasi un incidente di percorso nella vita del protagonista, mentre Tom Dooley viene raffigurato come un “poor boy” che troppo tardi si rende conto dell’irrimediabilità del proprio errore. Alla fine il pubblico-coro lo invita, un po’ ipocritamente, a pentirsi dopo essersi goduto tutta la faccenda.

La incontrai sulle montagne, lì le tolsi la vita
La incontrai sulle montagne, la colpii con il mio coltello

[…]

China il capo, Tom Dooley
Sì, china il capo e piangi (uh uh uh)
China il capo, Tom Dooley
Povero ragazzo, stai per morire

Il folk revival americano nasce gotico

Il Kingston Trio fu un chorus group che popolarizzò il folk rimuovendone  la componente politica radicale dei maestri Almanac Singers (di cui facevano parte Pete Seeger e Woody Guthrie) e rendendone anodini i suoni. Ebbe comunque il merito di dare l’avvio al folk revival dei primi anni ’60, quello di Joan Baez, Bob Dylan e Phil Ochs. Quindi si può dire che il folk come noi oggi lo conosciamo ha un battesimo gotico.

Il primo nome importante del nuovo folk revival è proprio Joan Baez che incide l’opera d’esordio nel 1960. Baez è per tutti la voce dell’America dei diritti civili, dell’opposizione alla guerra del Vietnam, ma agli inizi è soprattutto una cantante folk. Nel suo repertorio sono presenti  tutti i pezzi forti della balladry anglo-scoto-americana, incluse le ballate assassine. Se  Matty Groves e  Mary Hamilton mostrano una chiara provenienza europea e interventi testuali “colti”, qui ci interessano maggiormente cose più selvagge e radicate (o ripiantate) nel nuovo mondo.

Parliamo di canzoni che – al pari di Tom Dooley – dipingono un’America primitiva, rozza e violenta dove la vita di un uomo e, soprattutto, di una donna valgono poco o nulla. Un’America che era stata conosciuta quasi in diretta da musicisti rurali della prima metà del Novecento come Dock Boggs, Clarence Ashley o Huddie Ledbetter, in arte  Lead Belly, uno che a quel mondo drastico dette il suo contributo anche a livello di codice penale.

Lily Of The West

Proveniente da una famiglia colta, Joan Baez riprende quelle canzoni all’interno di un contesto più rassicurante e quasi antropologico, ma di suo mette una sincera partecipazione alla causa dei disgraziati e dei disadattati di ogni epoca. Lo fa, ad esempio, in Lily Of The West, canzone di origine irlandese ricollocata in Kentucky.

La prima volta che arrivai a Louisville giusto per divertirmi un po’
Trovai una signorina di Lexington che molto mi piacque
Le sue gote rosa, le sue labbra color rubino mi trapassarono come frecce
Il suo nome era Flora, il giglio dell’ovest

Ma quando il protagonista vede Flora in compagnia di un “uomo importante” ecco il disastro:

Affrontai il mio rivale, il coltello nella mano,
Lo afferrai per il colletto e senza paura lo tirai su di peso
Pazzo per la disperazione lo pugnalai nel petto
Tutto per la bella Flora, il giglio dell’ovest

Rispetto a Tom Dooley, è interessante notare qui come la figura femminile assuma un carattere più definito, la fedifraga. capace di sedurre un uomo non necessariamente malvagio, ma roso dalla gelosia, e che anche in carcere  non dimentica la fanciulla dalle gote rosa e dalle labbra color rubino.

Anche se ha pronunciato la mia fatale sentenza,
E mi ha portato via la pace
Ancora amo l’infedele Flora,
Il giglio dell’ovest 

 

 

Queste truci storie punteggiano tutto il repertorio “popular” degli ultimi sessant’anni. Non ne rappresentano una componente maggioritaria, eppure riaffiorano di tanto in tanto come fiumi carsici o, per rimanere in tema, come sepolture clandestine. Due vanno considerate le hits (in tutti i sensi) del settore.

Pretty Polly

La prima è Pretty Polly, rifatta, fra gli altri, da Byrds, Judy Collins, Bert Jansch, David Lindley e, più di recente,  dai temibili alt-folkers Vandaveer. Esiste poi un’altra interpretazione, solo televisiva, di cui parleremo più avanti.

 

Derivata da una più antica ballata marinaresca (The Gosport Tragedy), Pretty Polly scende sulla terraferma e si cristallizza nelle due-tre stesure oggi note verso la fine del XIX secolo. Il testo cantato dai Byrds e da Judy Collins è il più suggestivo, con la vicenda ancora una volta ridotta alla sua essenzialità e, dunque, alla sua  ineluttabilità. Il delitto è una pulsione irreprimibile, quasi nell’ordine delle cose. Così come lo è il castigo.

Polly, cara Polly, vieni a fare un giro con me
Polly, cara Polly, vieni a fare un giro con me
Per divertirci un po’ prima di sposarci
Willie, oh Willie, ho paura dei tuoi modi
Willie, oh Willie, ho paura dei tuoi modi
Ho paura che tu possa portarmi in un posto sbagliato

Il cattivo per eccellenza della murder ballad

Nelle ballate folk i connotati psicologici dei protagonisti sono ridotti all’essenziale, sovente ai loro istinti primari. Agiscono per necessità oppure subiscono gli eventi. Il Willie di Pretty Polly risulta più articolato rispetto alla norma, e più spregevole,  perché premedita il delitto, scava la tomba.  E il tono dolente del, forse posticcio, commiato finale non riscatta il peggior cattivo delle murder ballads americane.

Oh Polly, cara Polly, hai capito proprio bene
Polly, cara Polly, hai capito proprio bene
Ho scavato la tua fossa per quasi tutta la notte

Ella fece qualche passo e cosa vide?
Fece qualche passò e cosa osservò?
Una fossa appena scavata con accanto una vanga

La pugnalò al cuore e il sangue dal cuore uscì
La pugnalò al cuore e il sangue dal cuore uscì
E nella fossa la bella Polly andò

Oh, gentiluomini e signore, vi dico addio
Oh, gentiluomini e signore, vi dico addio
Per l’uccisione della bella Polly la mia anima andrà all’inferno

Un debito con il diavolo il povero Willie deve pagare
Un debito con il diavolo il povero Willie deve pagare
Per avere ucciso la bella Polly ed essere scappato via

Si diceva prima di una versione solo televisiva di Pretty Polly. E’ quella canticchiata da Kevin Spacey, nel ruolo di Frank Underwood, nella serie House Of Cards. Accade qualche anno prima che l’attore venga accusato di molestie sessuali ai danni di giovani attori. Che sia il fantasma della povera Polly a guidare oggi la vendetta degli abusati di ogni epoca?

Banks Of The Ohio

L’altra murder ballad che ricorre costantemente nel repertorio sonoro degli ultimi decenni è Banks Of The Ohio, dimostrazione di come una storia avvincente, accompagnata da una melodia orecchiabile, possa attrarre un pubblico ampio a prescindere dalla sua crudezza.

Di origine ancora una volta ottocentesca, Banks Of The Ohio si distingue da molte altre ballate testualmente simili per la presenza di un ritornello piacevole e facile da memorizzare.

Anche qui la storia, narrata in prima persona, vede protagonista un uomo che uccide la donna che rifiuta di sposarlo. Se la versione di Johnny Cash (1964) ha la gravitas tipica del suo esecutore ed enfatizza il pentimento dell’assassino più che il suo gesto criminale, è un’altra la cover davvero indimenticabile. La canta Olivia Newton-John (sì, la Sandy di Grease) che nel 1971 porta il singolo al numero 1 nella classifica australiana e al n. 6 in Gran Bretagna.

Una sorprendente Olivia Newton-John

E attenzione perché è una cantante non certo considerata  un’icona femminista  che provvede a rovesciare la tragica dialettica uomo carnefice-donna vittima fin qui data per scontata.

Tenni il coltello contro il suo petto
Mentre lui stava fra le mie braccia
Gridava “Amore mio, non assassinarmi
Non sono preparato per l’eternità”

Sono tornata a casa fra le 12 e l’una
Ho gridato, “Mio Dio, che cosa ho fatto?”
Ho ucciso il solo uomo che amavo
Non mi voleva prendere per moglie

 

Vale davvero la pena guardare il video live del pezzo con Olivia che canta ineffabile le strofe più cattive, accompagnata da fiati e coro maschile, mentre il pubblico (quasi tutto composto da ragazze, guarda caso) balla e batte le mani a tempo. La banalità del male che Hannah Arendt analizza in 320 pagine viene esaurita da Olivia Newton-John in 191 secondi. Potenza del pop.

Where Did You Sleep Last Night

Resta infine da parlare della murder ballad “tradizionale” che quasi tutti conoscono, Where Did You Sleep Last Night.  E che ci consente di far finalmente entrare in scena il rock, protagonista delle prossime puntate di questa rubrica. Anche questo pezzo dovrebbe risalire alla seconda metà dell’Ottocento e, con il titolo di In The Pines, è stato eseguito nel corso degli anni da musicisti di ambito folk, country e bluegrass come Carter Family, Bill Monroe, Ralph & Carter Stanley, Gene Clark e Joan Baez. Ma è la versione blues del già citato  Lead Belly, quella che colpisce due giovani esponenti del grunge. E’ Mark Lanegan il primo ad appassionarsi al pezzo, a inciderlo (nell’album The Winding Sheet) e a farlo conoscere a Kurt Cobain. Coobain lo esegue con i Nirvana in versione acustica durante il concerto del 18 novembre 1993, pubblicato un anno dopo con il titolo MTV Unplugged In New York.

Ancora una volta il testo è ridotto all’essenziale. Si tratta di un dialogo sempre  più serrato fra una madre (presumibilmente) e una figlia.

Ragazza mia, ragazza mia, non devi mentirmi

Dimmi dove hai dormito stanotte

Tra i pini, tra i pini

Dove il sole non splende mai

E dove si trema per tutta la notte

Potrebbe trattarsi della richiesta di chiarimenti per una scappatella sentimentale, ma ecco che una sorta di voce fuori campo spiega cosa è accaduto, nel bosco:

Suo marito era un gran lavoratore

A più o meno un miglio da qui

La sua testa fu trovata sopra una ruota

Ma il corpo non fu mai trovato

Kurt Cobain e la wilderness interiore

Il fascino del testo sta nella mancata ammissione di colpa da parte della ragazza che alla fine dice di voler tornare in mezzo ai pini, forse per non tornare mai più a casa (l’ultima strofa è praticamente un urlo strozzato). E’ dunque la wilderness americana, temibile, oscura e indifferente a dare il giudizio finale, a fungere da esplicitazione geografica del destino di uomini e donne qualsiasi persi sotto un cielo troppo grande. Così come pochi mesi dopo quel concerto, un’altra wilderness tutta interiore avrebbe deciso il destino di Kurt Cobain.

Me ne andrò dove soffia il vento freddo

Tra i pini, tra i pini

Dove il sole non splende mai

E dove si trema per tutta la notte

 

 

 

 

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Nello scorso secolo e in parte di questo ha collaborato con Rockerilla, Musica!, XL e Mucchio Selvaggio. Ha tradotto per Giunti i testi di Nick Cave, Nick Drake, Tom Waits, U2 e altri. E' stato autore di monografie dedicate a Oasis, PJ Harvey e Cranberries e del volume "Folk inglese e musica celtica". In epoca più recente ha curato con John Vignola la riedizione in cd degli album di Rino Gaetano e ha scritto saggi su calcio e musica rock. E' presidente della giuria del Premio Piero Ciampi. Il resto se lo è dimenticato.

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