Concerto: Rolling Stones a Milano

Il concerto dei Rolling Stones in una calda notte a Milano, 21 giugno 2022

Se Hegel fosse stato seduto ieri sera sulle gradinate di San Siro, sperabilmente in un posto più comodo del mio, non avrebbe visto Napoleone né lo spirito della storia a cavallo, ma sarebbe rimasto sbalordito di come lo spirito più sbarazzino del rock and roll continui imperterrito a sprizzare e ballare in mezzo ad una folla oceanica, ancora oggi, dopo sessant’anni, grazie alle membra tese ed agitate di un altro piccolo, minuscolo uomo.

Mick Jagger anima i Rolling Stones in concerto

La calda notte che ha visto a Milano i Rolling Stones in Italia forse per l’ultima volta, dopo la recente scomparsa di Charlie Watts, impone, per la sua natura quasi certamente conclusiva di un ciclo che, tanto parte di lontano, pare infinito, una parola di assolutezza, anche per chi, come il sottoscritto, è stato un ragazzo che amava molto più i Beatles dei Rolling Stones: Mick Jagger che corre in lungo e largo il palco dello stadio milanese è l’icona definitiva della più grande rock ‘n’ roll band del XX secolo. Non la più perfetta, raffinata, versatile, cool delle rock band. La più grande, e basta. Sta tutta nel brivido che corre lungo le gradinate non appena Jagger tocca il palco la risposta al perché. Ed è subito ben chiaro che se commiato sarà, sarà in piedi e senza lacrime.

Il contributo di Keith Richards alla vicenda terrena degli Stones (e alla collaterale loro debordante mitologia) è enorme, ma chi scrive è convinto che gli Stones non siano i Beatles (va da sé, si sa), e che la loro sintesi non sia duplice, ma una è una soltanto: Mick Jagger. Se gli Stones senza Richards sono a mala pena immaginabili, senza Jagger, semplicemente, non esistono. La serata meneghina è stata il suo tripudio e la sua finale incoronazione di satiro, re e cantante.

Il Sixty Tour

Poco conta che il gruppo d’apertura (i Ghost Hounds) si sia rivelato un anonimo e grossolano tappabuchi, o che la resa sonora del concerto intero sia stata non di rado imperfetta o che l’allestimento scenico del Sixty Tour, così come gli omaggi ucraini di rito, non siano usciti dalla mente raffinata di un esteta preraffaellita; poco conta, anzi nulla conta, davanti a due ore e venti di concerto, in cui sono sfilati diciannove pezzi, tre quarti dei quali sono classici tali da far impallidire, e su cui nulla si può dire, se non si vuol far sorridere.

Ci si limiterà a dire che rispetto alla data di Liverpool, chi ha sfidato la cappa appiccicosa di San Siro, ha avuto in dono un dittico d’eccezione, Dead Flowers e Wild Horses, pescato nel cuore lontano di Sticky Fingers; insieme ad Out Of Time, per chi scrive, il momento più intenso. Jagger, si è capito subito, più di tutti i suoi confratelli ha stretto un patto col diavolo e, da Simpathy For The Devil in giù, continua a trarne frutti egregi, liberandolo se non dal male, almeno dal Covid, che ne è un servitore non proprio trascurabile.

Un pezzo di storia della musica

Richards, alla voce, come di consueto, in You Got The Silver e Connections, ci è parso, al contrario, regalare il momento più affaticato del concerto, ma veder correre sul palco questi eterni ragazzi inglesi e vederli salutare così, di fronte ad un pubblico tutt’altro che geriatrizzato, un’Europa corsa mille e mille volte, è un privilegio che sarebbe ottuso ed ingeneroso rubricare sotto la semplice voce ‘concerto’.

Perché non è soltanto rock ‘n’ roll, che ci piace, la storia degli Stones; è un blocco di Novecento che si stacca come un iceberg e non vuol saperne di colare a picco; è la meticolosa costruzione e la sistematica perpetuazione di un carisma epocale; è il confondersi, grazie all’esercizio di un mestiere non di rado pericoloso, la vita e la scena. Fino all’ultimo. giorno, fino all’ultima scena.

È un grande gioco, la musica rock, una manciata infinita d’accordi intrisa di detriti, ma anche vita, e storia di mille vite che se ne sono impastate, le nostre; il concerto milanese ed il Sixty Tour la celebrano con gioia e vigore, ed il sipario che scende sul doppio bis di Gimme Shelter e Satisfaction non sarà un requiem finché questo impenitente Napoleone della musica non sarà costretto, suo e nostro malgrado, a deporre lo scettro.

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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