di Antonio Vivaldi
Adorabili e irritanti fin dalla ragione sociale. Chiamarsi Alvvays anziché Always è certo un modo intelligente di irridere alle convenzioni visive della parola scritta, ma dà soprattutto l’idea di una furbata per farsi trovare più facilmente sui motori di ricerca. Quanto alla musica, il quintetto di Toronto sceglie un ambito di questi tempi piuttosto ovvio: un pop trasognato, intelligente e furbo che amalgama il sole del surf californiano anni ’60 con i cieli grigi di certo indie-pop inglese anni ’80. Il tutto è frullato da un costante riverbero e da un paio di riferimenti a cose più note come Blondie e Yeah Yeah Yeahs. Più o meno li si può paragonare ai Veronica Falls con più zucchero, meno adrenalina e uguale tendenza all’unidimensionalità concettuale (una bella malinconia electro alla XX arriva solo nella conclusiva Red Planet). Per ritornare allo spunto di partenza, se un tale tripudio di ovvietà trendy-alternative può risultare per principio irritante, a rendere quasi sempre adorabile l’album è l’innocenza melodica delle canzoni, forse sincera, forse studiata a tavolino e geniale nella sua ambiguità irrisolta.
7,3/10
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