Il Britpop ormai maturo dei Blur e di The Magic Whip.
Ammettiamolo: stavo con gli Oasis. Sì, all’epoca della grande disfida britpop preferivo gli Oasis ai Blur perché erano stentorei, prolet e cattivelli (mentre i Blur erano cool e borghesi) e perché scrivere un libriccino su di loro me li aveva resi simpatici. Finito nel 1995 quel divertente periodo, i fratelli Gallagher hanno però combinato poco, mentre i Blur, sia collettivamente sia nei progetti solisti di Damon Albarn e Graham Coxon, hanno proposto cose magari non epocali ma interessanti. The Magic Whip esce sedici anni dopo 13, l’ultimo album del gruppo nella classica formazione a quattro e più o meno riparte da lì, dimenticando le atmosfere ballabili di Think Tank e tenendo conto dell’altermondismo e dell’alterelettronica che da qualche tempo piacciono ad Albarn. Inoltre può contare su un Coxon meno etilico e meno depresso. Insomma, questo disco nato a Hong Kong un po’ per caso e un po’ per curiosità è quello che riesce meglio di tutti a dare equilibrio alla dialettica, talora difficoltosa, Albarn-Coxon.
Intervista a Blur dei tempi d’oro
Ai tempi di 13 le cose andavano altrimenti. L’incontro londinese con la stampa italiana andò così: in una stanza Albarn e il bassista Alex James rispondevano ridacchiando a qualsiasi domanda avvolti in una nuvola di fumo, mentre in un’altra stanza Coxon parlava guardando il pavimento e dicendo cose tipo “i Blur sono come un dinosauro che mi aspetta davanti alla porta di casa” (in un’altra stanza ancora c’era il simpatico batterista Rowntree che nessuno si filava). Nel pop 16 anni sono un’era geologica e ormai il dinosauro si è estinto; si può dunque descrivere The Magic Whip come un lavoro maturo e bene articolato che tira le fila di tutta la carriera del gruppo.
https://youtu.be/Sp1ks7PTzng
Blur – The Magic Whip: Un disco di ottimo livello
E’ sovente un disco tra il criptico e l’apocalittico, affascinante soprattutto nei momenti in cui i toni cupi agiscono su un britpop sobrio e sottotraccia (com’è lontana House In The Country…) che pare decostruito da St. Vincent o dal Bowie di The Next Day. Piacciono anche i passaggi dove ritornano in scena le nebbie malinconiche che Albarn aveva già evocato in tempi precedenti, ma che allora sembravano create con lo spray o con fumi illeciti e oggi invece danno l’idea di vero paesaggio interiore (qualche vicenda privata ha dato il suo contributo). Da ultimo c’è da segnalare la presenza di Stephen Street, di nuovo produttore come ai bei tempi e bravissimo nel mettere al loro posto i molti suoni del disco senza mai farli sembrare troppi.
Stabilito che un gruppo nato a fine anni ’80 e in grado di suonare attuale (anzi trainante) nel 2015 è davvero una rarità, va tuttavia detto che The Magic Whip si perde in qualche prolissità strumentale e manca di vera memorabilità melodica, proprio quella che, almeno agli inizi, avevano, ehm… gli Oasis.
7,8/10