L’affermazione definitiva di Kendrick Lamar si chiama To Pimp A Butterfly.
Benché tradizionalmente il rap sia un genere che si serve molto di basi preregistrate, meno di musica suonata dal vivo, non è raro vedere rapper che si esibiscono live con una band. Eminem se n’è servito recentemente con risultati discreti in termini di feeling con gli strumentisti, Jay Z anche, con risultati migliori, ma fra tutti quello che mi ha colpito di più è stato Kendrick Lamar, perfettamente a suo agio nel portare in tour lo splendido Good Kid m.A.A.d. City, nell’espanderne le canzoni verso una dimensione più funky, dove la band non è solo accompagnamento, ma parte essenziale della musica prodotta.
Ecco, chi ha visto Kendrick Lamar dal vivo dovrebbe stupirsi meno di fronte a To Pimp A Butterfly, un disco che rende la tradizione profonda della black music (il funk, il soul, il jazz) parte essenziale dell’esperienza, e in più modi: intanto, perché la forma-canzone tradizionale è qui completamente superata, i brani sembrano svilupparsi in più direzioni e solo a volte abbiamo la tradizionale sequenza strofa / hook; altrove pare di assistere a improvvisazioni che, appunto, in genere solo la dimensione live può offrire. Il che, va detto, rende To Pimp A Butterfly meno immediato di Good Kid ma, una volta che si sia riusciti a penetrarne la complessità, entusiasmante. Non c’è però solo questo: Kendrick sceglie in modo accorto i produttori e gli strumentisti (da Thundercat a Flying Lotus), affinché siano in grado di costruirgli un tappeto sonoro nel quale far rivivere il funk, il soul, il jazz non come semplice sfondo, ma come parte integrante di una urban music, o di un hip-hop se si preferisce, che mai come in questa occasione sembra la naturale evoluzione rispetto a quel passato, come suggeriscono la presenza di George Clinton e di Ronald Isley.
Il miglior rapper della sua generazione
Per questo Kendrick Lamar finisce per stare al rap come D’Angelo sta al r’n’b; entrambi con un approccio funambolico alla musica, entrambi in grado di spostare il gioco su un piano diverso, più elevato. Nel caso di Kendrick bisogna dire poi che le sue straordinarie capacità di rapper gli consentono di spendersi letteralmente su qualsiasi base; e non è solo questione di ritmo o di velocità, che pure certo non gli mancano, perché l’interpretazione, la pluralità di voci e toni utilizzati sono soprendenti e servono a dar vita alle composizioni come solo i grandi sanno fare (in qualunque genere).
Le parole di Kendrick Lamar in To Pimp A Butterfly
I testi non sono da meno; la questione razziale è centrale nell’America di oggi, ma non è certo la classica canzone di protesta a interessare il nostro, perché anche la sua vita, il suo successo finiscono per intrecciarsi, come nei migliori romanzi, con i temi sociali. E qui Kendrick non risparmia né se stesso (“Non sei un fratello, non sei un discepolo, non sei un amico / Un amico non lascerebbe Compton per i soldi né il suo migliore amico”: da ‘u’), né la comunità afroamericana (“Allora perché ho pianto quando Trayvon Martin giaceva sulla strada / visto che una rissa fra bande mi ha portato a uccidere un negro più nero di me. Ipocrita!”: da The Blacker The Berry) alla quale evidentemente chiede di fare di più, di impegnarsi di più. To Pimp A Butterfly ne è la prova: Good Kid è stato acclamato come un classico, ma accontentarsi non basta, si può andare ancora oltre, mettendosi in gioco.
Il che mi pare possa spiegare anche il dialogo che conclude il disco, dove una rara intervista di Tupac, idolo del Kendrick bambino, viene immaginata come un dialogo fra i due rapper; presunzione, forse, visto che Tupac è ancora per molti icona intoccabile, ma allo stesso tempo coscienza del bisogno di nuove figure di riferimento e del proprio ruolo nella scena musicale contemporanea. Nel frattempo, Kendrick ha incontrato Dio sotto forma di un mendicante, è inseguito dal demone Lucy (per Lucifero) e ha preso il trono che gli spetta anche per mancanza di concorrenti (“Stavo per far fuori un paio di rappers ma hanno fatto da soli / Tutti suicidi non hanno nemmeno bisogno del mio aiuto”: da King Kunta).
To Pimp a Butterfly oltre le canzoni
A questo punto è quasi superfluo parlare delle canzoni. ‘ì’, la prima uscita molti mesi fa, resta forse la più immediata, ma il suo contraltare ‘u’, l’iniziale Wesley’s Theme, The Blacker The Berry, King Kunta, Hood Politics, How Much A Dollar Cost non sono da meno, e comunque questo è un disco che vale nel suo insieme, come una sorta di concept, più che nelle singole parti. Ognuno troverà i suoi brani preferiti di To Pimp A Butterfly, magari a seconda dei momenti e delle stagioni. Perché se è difficile dire a pochi giorni dall’uscita fino a che punto sarà ricordato come un classico, quel ch’è certo è che questo è un disco destinato a essere ascoltato e ricordato molto oltre l’anno di uscita.