Tornano ma non esaltano i Kings Of Leon di Mechanical Bull.
Dopo uno iato durato tre anni e denso di voci su dissidi e riabilitazioni, ecco di ritorno i Kings Of Leon: Mechanical Bull si apre con il singolo Supersoaker, uno di quei brani al tempo stesso energici e melodici che la band è riuscita a infilare in ognuno dei suoi dischi. Bell’inizio, insomma, ma la sopresa arriva con i due successivi: Rock City e Don’t Matter riportano direttamente all’esordio Youth & Young Manhood; soprattutto la seconda, con un incedere alla Jumpin’ Jack Flash, è veramente bella. Poi tutto finisce. Non che il resto del disco sia molesto, ma i Kings Of Leon se ne tornano alla formula degli ultimi dischi: bella voce, atmosfere radiofoniche molto americane, insomma tutto come previsto. In particolare, la chitarra ha sovente quel suono, ampiamente utilizzato e forse ‘inventato’ da The Edge degli U2, che dagli anni ’80 in poi caratterizza larga parte del rock ‘stadium oriented’ e che, francamente, non si regge più.
Perché questo calo? Nei primi tre brani i Kings dimostrano di avere ancora delle carte da giocare, ma sembrano terrorizzati dall’idea di perdere il largo consenso che gli ultimi dischi hanno assicurato loro. Ed è un errore, perché gli artisti rimarchevoli sono quelli che conducono il proprio pubblico verso territori inediti o quantomeno insoliti. Evidentemente il quartetto preferisce giocare sul sicuro, ma così facendo rischia seriamente di divenire irrilevante.
6.5/10