PJ Harvey The Hope Six

Un diario di viaggio in musica: PJ Harvey – The Hope Six Demolition Project.

Si era già letto e ascoltato parecchio del nuovo disco di PJ Harvey prima ancora dell’uscita: frutto di viaggi tra Afghanistan, Kosovo e Washington DC, che hanno dato vita anche a un libro di poesie e fotografie, The Hollow Of The Hand (in collaborazione con Seamus Murphy), The Hope Six Demolition Project è stato registrato in un singolare esperimento (al quale ho avuto il piacere di assistere)  e annunciato da tre canzoni e vari teasers nel corso degli ultimi mesi.

 

Non facile dare un seguito a Let England Shake, che nel 2011 ci aveva fatto conoscere un aspetto del tutto inedito di PJ Harvey, passata dall’essere sacerdotessa del dark a donna con una coscienza storica e sociale rara nel panorama musicale (e non solo) attuale. Interamente dedicato all’Inghilterra e alle sue guerre, del Novecento e attuali, premiato e lodato, non è che Let England Shake fosse però piaciuto a tutti: delusi quanti vorrebbero vedere i propri musicisti preferiti ripetersi nei medesimi clichés, irritati quanti (e sono molti) non gradiscono incursioni in territori extramusicali; insomma si può parlare di tutto, ma non di Gallipoli e dell’Iraq. La stessa irritazione emerge nei primi commenti che accompagnano l’uscita di The Hope Six Demolition Project: hanno cominciato i politici di Washington DC per il quadro non lusinghiero del Ward 7, il quartiere in cui sono in corso i progetti di demolizione di cui si parla nella iniziale The Community Of Hope (“Ed ecco l’unico ristorante dove ci si può sedere nel Ward 7, carino, ma questa è solo la città della droga, questi sono solo zombies e questa è la vita”).

 

PJ in versione cronista, ma d’eccellenza

Continuano ora quei critici (NME, Pitchfork) che vorrebbero da PJ Harvey addirittura una risposta per i temi (la guerra, la povertà) di cui parla. Le risposte, per fortuna, nel disco non ci sono. E’ invece un diario di viaggio, ed è questa la principale differenza rispetto a Let England Shake: lì avevamo un viaggio nella storia, qui un percorso personale che fa scaturire alcune osservazioni e undici canzoni che risentono della episodicità del viaggio stesso. Inoltre, rispetto al precedente, PJ torna ad alcuni stilemi rock e blues ripercorsi varie volte nella sua carriera, ma in anni precedenti. Così The Community Of Hope nell’incedere potrebbe ricordare uno di quegli ‘inni’ à la Patti Smith, mentre River Anacostia è un gospel dagli arrangiamenti magistrali – come spesso succede nel disco, grazie a un’ottima équipe di musicisti e produttori.

Canzoni come film.

The Ministry Of Defence, con Linton Kwesi Johnson, è magnifica con il suo riff rock iniziale e il crescendo che rinvia a diversi momenti di Let England Shake. Al pari di The Wheel, la prima canzone scelta per anticipare il disco e che come il bellissimo video che l’accompagna ci dice le sue impressioni del Kosovo post-bellico. Stessa ambientazione per Chain Of Keys, più difficile da apprezzare al primo ascolto sotto il profilo musicale, ma uno fra i testi più ispirati: è la storia di una donna che conserva le chiavi di casa dei vicini, pur sapendo che mai torneranno. The Ministry Of Social Affairs, un altro dei momenti immediatamente godibili, è un blues che potrebbe metter d’accordo nuovi e vecchi ammiratori. Bellissimo il sax, che chiude altrettanto magnificamente la conclusiva Dollar, Dollar, di nuovo un testo e un brano notevoli. Per le risposte alle domande sullo stato del pianeta guardate altrove; qui avete solo uno dei dischi più forti e coraggiosi che vi capiterà di ascoltare.

9/10

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Mi piace la musica senza confini di genere e ha sempre fatto parte della mia vita. La foto del profilo dice da dove sono partita e le origini non si dimenticano; oggi ascolto molto hip-hop e sono curiosa verso tutte le nuove tendenze. Condividere gli ascolti con gli altri è fondamentale: per questo ho fondato TomTomRock.

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