As Days Get Dark: dopo 16 anni il ritorno degli Arab Strap.

Pensate a Leonard Cohen, quello electro-crooner di I’m Your Man. Subito dopo pensate agli Sleaford Mods, quelli sempre rabbiosi ma abbastanza strutturati del recente Spare Ribs. Poi teneteli a mente entrambi. Bene, se questo esercizio un po’ demente vi riesce, avete ottenuto gli Arab Strap. Per la precisione quelli di As Days Get Dark, l’album con cui Aidan Moffat e Malcolm Middleton tornano a incidere dopo 16 anni di silenzio discografico.
Arab Strap tra Leonard Cohen e Sleaford Mods
La menzione coheniana si autogiustifica nelle note basse della voce di Moffat, nella dialettica sordido-sexy-sublime dei suoi versi e nel gusto per l’elettronica vintage di Middleton. L’affinità con gli Sleaford Mods sta nel ‘format’ del duo modernista in cui uno parla-canta mentre l’altro lavora di fantasia con basi e strumenti così come nello sguardo desolato alla contemporaneità. (In questo senso un referente plausibile è anche il tonitruante Richard Dawson).
Da tutto ciò appare chiaro come gli Arap Strap siano rimasti fedeli a se stessi e al loro mondo un po’ triste e un po’ filofobico (*), ma anche stranamente poetico. La differenza rispetto al 2006 di The Last Romance è che nel frattempo il mondo è diventato più in sintonia con il loro modo di vederlo. Dobbiamo fare l’elenco? Crisi finanziaria, attentati terroristici, ascesa del populismo più triviale, rigurgiti fascisti, la pandemia… È come se Moffat e Middleton avessero sempre saputo che sarebbe andata a finire così e, ora che si avvicinano ai 50 anni, più che come sfigatoni con accento scozzese si propongono come guru del disagio (sempre con l’accento scozzese). Quanto all’isolazionismo da Covid è come se per loro ci fosse sempre stato.
As Days Get Dark. il disco ‘facile’ degli Arab Strap
Detto così, per chi non conosca gli AS l’ascolto può sembrare impresa assai impegnativa, nonché deprimente. In realtà non è così. As Days Get Dark propone suoni ricchi e sempre interessanti. Lo dimostrano, citando qua e là, il crescendo coinvolgente di Here Comes Comus!, la chitarrona classic rock di Tears On Tour, l’andatura epica di I Was Once A Weak Man, lo stacchetto free jazz di Kebabylon, i ritornelli simil-melodici di Another Clockwork Day, gli archi che spuntano sovente, la ritmica disco-vintage più bonghi. Lo si può descrivere come l’album più ‘accessibile’ dei due.
I testi di Aidan Moffat
I testi, tutti splendidi per intensità e precisione della parola, si aprono sulle consuete stanze di vita urbana, stanze ora immerse in un buio che è quello della quasi mezza età, della disillusione, del sesso che può essere squallido (Another Clockwork Day), ma anche, a suo modo vitale (As Days Get Dark). Moffat è eccellente anche quando esce dalla dimensione strettamente realista per mettere in scena una metafora del razzismo attuale (Fable Of The Urban Fox) oppure immaginare un un tour di concerti ‘delle lacrime’ dove artista e pubblico piangono tutti insieme (Tears On Tours). L’ultima canzone, Just Enough, dice “abbiamo perso la voglia di combattere”. Ma dice anche “E’ già abbastanza avere delle sensazioni/ E già abbastanza sapere che quelle sensazioni sono reali/ E se non ti ferisci mai, non guarisci mai”. Una consolazione minima eppure enorme.
(*) Philophobia, ovvero la paura di amare che può condurre alla depressione, è il titolo del secondo album degli Arab Strap, uscito nel 1999 e considerato il loro manifesto esistenziale.
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