Recensione: Bob Mould – Blue HeartsMerge Records – 2020

La lezione di Keith serve bene anche Bob Mould e Blue Hearts.

“Five strings, three chords, two hands and an asshole”: la lapidaria affermazione di Keith Richards (sempre sia lodato) per spiegare i segreti dell’accordatura aperta in sol, ben potrebbe essere adattata ai recenti lavori di Bob Mould, uno che già si sarebbe meritato l’immortalità anche solo per quello che aveva saputo fare con gli Hüsker Dü, con i quali negli anni 80 aveva ribaltato il tavolo dell’alternative rock, segnando la strada per tutti gli sviluppi futuri del genere, soprattutto del grunge.

Recensione: Bob Mould – Blue Hearts
Merge Records – 2020

In questa quattordicesima prova solista di Mould, Blue Hearts, ci troviamo di fronte ad un granitico suono di chitarra, potente, spietato ma addolcito da un senso melodico fuori dal comune, nessun virtuosismo, puro r’n’r’, rabbioso e tirato.

Una rabbia dolorosa

Quello che in quest’ultimo lavoro è cambiato rispetto alle ultime prove, dove i testi rispecchiavano uno stato di leggerezza solare del tormentato animo del chitarrista statunitense, è invece il ritorno ad una rabbia feroce e implacabile verso la china moralista e bigotta che gli Stati Uniti stanno prendendo in questi ultimi anni. Mould urla la sua indignazione contro il nuovo pensiero dominante made in USA, che lo costringe ancora una volta in una situazione di emarginazione, uguale a quella dolorosissima vissuta negli anni della sua gioventù, anche a causa di una omosessualità sempre orgogliosamente e dignitosamente dichiarata. E mai ostentata. Questa furia si appoggia su un vibrante rock chitarristico, con l’appoggio dei fidati John Wurster alla batteria e Jason Narducy al basso (solidi e perfetti), dove però (e qui sta il genio di Mould sin dai tempi degli Hüsker Dü), il suono potente, i feedback, le svisate noise, si dipanano su una base melodica perfetta, che riporta la mente i Big Star più ispirati.

Rumore e melodia: il marchio di Bob Mould anche in Blue Hearts

Il disco si apre con una piccola ed ingannatrice gemma acustica (Heart On My Sleeve), con un suono di solchi rovinati di vinile che introducono una ballad, che sembra uscita dal folgorante esordio del nostro, quel Workbook che nel 1989 rivelò al mondo che sotto il suono abrasivo degli Hüsker Dü c’era un grandissimo songwriter. Ma, come detto, è un inganno perché subito dopo si piomba in pieno rock elettrico e rabbioso con l’uno-due di Next Generation e di American Crisis, dove l’urgenza di urlare il proprio disagio verso questi tempi bui si esprime attraverso un rock forte e sanguigno, che ben accompagna testi intrisi di amarezza e rabbia (“I never thought I’d see this bullshit again. To come of age in the ’80s was bad enough. We were marginalized and demonized I watched a lot of my generation die. Welcome back to American Crisis, No telling what the price is”).

 

Il disco prosegue su questa linea, alternando canzoni dal gusto quasi hardcore (Fireball, When You Left, Racing To The End) ad altre dove l’impianto melodico si fa più arioso, regalando piccole gemme come Siberian Butterfly (chitarre e cori che si inseguono in un pezzo dal sapore eightes), Everything to You (la quintessenza della ballata elettrica, dolce e potente), Baby Needs a Cockie (pezzo magistrale che sembra uscito dalla penna di Paul Weller, epoca Jam) e la struggente Forecast of Rain, dove su un tappeto chitarristico dolce e dolente, Mould si scaglia contro il nuovo perbenismo dilagante che lo costringe per l’ennesima volta in una situazione di dolorosa marginalità. Il disco si chiude, con la sinuosa The Ocean, che pare regalare uno (splendido) squarcio di speranza per il futuro.

Una nuova conferma di un talento unico

Disco implacabile, quindi, con una scrittura al livello dei migliori lavori del Bob Mould più recente, che, dopo le incertezze della prima decade del secolo, da almeno dieci anni ha rimesso a fuoco il suo talento, regalandoci dischi di ottima fattura, come questo Blue Hearts, dove i molti tormentati cuori immalinconiti dalla miseria anche morale dei tempi presenti, troveranno sollievo nella forza e nell’orgoglio di un grande artista. È proprio dei grandi artisti, infatti, riuscire a leggere ed interpretare con lucidità e precisione i tempi moderni, denunciandone anche gli aspetti più retrivi e meschini. E Bob Mould è un enorme artista e di questo, oltre che di tutto il suo abbagliante passato, dobbiamo ancora una volta ringraziarlo.

Bob Mould – Blue Hearts
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Classe 1965, bolzanino di nascita, vive a Firenze dal 1985; è convinto che la migliore occupazione per l’uomo sia comprare ed ascoltare dischi; ritiene che Rolling Stones, Frank Zappa, Steely Dan, Miles Davis, Charlie Mingus e Thelonious Monk siano comunque ragioni sufficienti per vivere.

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