Doug Martsch, Built to Spill e Daniel Johnston.
Lo ammetto, ho poca simpatia per Doug Martsch. Ho in massimo sospetto la sua mente asettica e combinatoria e quel suo rimescolare a tavolino, di volta in volta, la formazione dei Built to Spill, nemmeno fosse Neil Young, con esiti invariabilmente modesti. Sempre formalmente ineccepibile quanto sostanzialmente conformistico egli mi risulta – peccato mortale in musica – noioso. Spiace dirlo, ma non hanno fatto molta strada Martsch e la sua creatura musicale da Ultimate Alternative Wavers (1993), solida quanto anonima prova di indie chitarristico, allo scipito esito di Untethered Moon (2015), tolto qualche lieve tocco di maquillage.
Càpita, ai primi della classe, a quelli a cui viene tutto facile e che alzano la mano ancor prima che il professore abbia fatto la domanda, di fermarsi alle buone intenzioni. Non nascondo quindi di aver sentito un brivido vedendo la sigla dei Built to Spill associata al nome di Daniel Johnston (Sacramento, 1961-Waller, 2019), il cui grande, malandato cuore ha cessato di battere poco più di un anno fa. Ma, ottimista incrollabile, ho voluto sperare fino alla fine che dall’incontro su disco fra il più irregolare degli outsiders ed un onesto burocrate del rock alternativo scoccasse almeno una scintilla, dopo che il destino li aveva fatti incontrare ed esibirsi insieme nel 2017.
Ricordiamo Daniel Johnston
Daniel Johnston, musicista, pittore, fumettista, è quel che si può definire un genio, capace di realizzare d’incanto una piena identità fra intuizione ed espressione, a prescindere dai mezzi tecnici a disposizione. La sua preistoria, personale e artistica, si condensa nei pochi versi disarmati – ma non ingenui, ché ingenuo Johnston non fu mai – di Grievances: “You’re a lovely lady but you don’t wanna be/ No girl of mine/ […] / And I saw you at the funeral/You were standing there like a temple/ I said ‘Hi! How are you? Hello!’/ And I pulled up a casket and crawled in/”. Il giovane Daniel è folgorato da Laurie, commessa, ma Laurie (Allen, al secolo) non ricambia, è fidanzata e sposerà un altro. Fin qui nulla di strano, se non che il precario equilibrio di Daniel precipita irrimediabilmente: la bara in cui si troverà a strisciare sarà quella di una sindrome maniaco depressiva che farà della sua vita una via crucis costellata di ricadute e ricoveri.
Gli esordi
Ma è anche così che Daniel inizia a comporre canzoni. In garage, con un organetto e un registratore pagato 59 dollari. Non incide, non esordisce, semplicemente registra musicassette per poi regalarle ai passanti, ilare e disperato menestrello delle proprie pene d’amore perduto e della propria inadattabilità al mondo, riprova incisa nella carne e nel sangue che seppure cantando il duol si disacerba, la sofferenza può essere una melodia infinita, fatta di mille e mille variazioni, anche quando Laura è un’anonima compagna di classe.
Del 1981 sono le sconcertanti prove, rigorosamente lo-fi, raccolte sotto il titolo di Songs Of Pain. Mille altre canzoni scriverà Johnston e chissà quante altre musicassette avrà inciso – ascoltate, se potete, almeno More Songs Of Pain, Yip/Jump Music e Hi, how are you, tutte del 1983 e Retired Boxer del 1984 – mille volte le registrerà e le ricanterà, antologizzando all’infinito il proprio dolore, ma anche il proprio disperato amore per la vita. Ad Austin, attorno a Daniel Johnston – che nel frattempo aveva abbandonato la scuola d’arte per seguire un luna park itinerante – cresce un tenace culto iniziatico. Le stralunate, splendide prime raccolte si susseguono, Daniel si esibisce dal vivo, come sa e quando può, e con l’uscita della raccolta 1990, distribuita dalla Shimmy Disc, il suo nome arriva alle orecchie dei grandi.
Un artista difficile
Lou Reed prova a incidere con lui, e non ci riesce. Kurt Cobain gli rende pubblico omaggio con la t-shirt che riproduce l’artwork di Hi, how are you, Bowie (che non sbaglia mai) gli dedica la canzone Wood Jackson (2002) definendo poi lo splendido Fear Yourself (prodotto da Mark Linkous) il più bel disco del 2003, i Sonic Youth e i Butthole Surfers si dichiarano suoi adepti. Quel geniaccio ammaccato di Jad Fair (pittore underground e già fondatore dei proteiformi Half Japanese), con il quale il sottoscritto avrebbe paura anche a giocare a dama, incide con lui ben due dischi, It’s Spooky (1989) e The Lucky Sperms: Somewhat Humorous (2001), che pur sfogando una tendenza rumoristica niente affatto estranea al mondo poetico di Johnston (e che potremmo definire il suo ‘secondo modo’), si risolvono, a parere di chi scrive, in un’operazione di vampirismo musicale in cui il sangue che scorre è quello del più fragile Daniel.
The Devil And Daniel Johnston
Nei primi anni Novanta Daniel – spirito religioso e devoto fino all’ossessione – rifiuta un contratto con la Elektra, casa discografica dei Metallica, che gli appaiono come pericolosi figli del demonio pronti ad ucciderlo. Firma nel 1996 per la Atlantic, grazie a Paul Leary dei Butthole Surfers, ma le disastrose vendite di Fun (bellissimo, per inciso) fanno naufragare il contratto.
La storia di attrazione e repulsione verso il mondo discografico di questo malandato e sghembo petrarchista taxano meriterebbe di essere mille volte narrata ed il documentario di Jeff Feuerzeig The Devil And Daniel Johnston (2005) lo fa in maniera commovente (c’è anche lei, Laurie, ben 26 anni dopo il loro ultimo incontro), con il pudore dovuto a chi, senza alcuna attitude, ha intinto per tutta la vita il proprio inchiostro nelle lacrime della sofferenza psichica, avendo in dono solo la capacità di tirar fuori dal proprio matto cappello alcune delle idee melodiche più belle che si siano udite dal tempo di Lennon & McCartney.
Built To Spill Plays the Songs Of Daniel Johnston
Ma quasi mi vado dimenticando di Built To Spill Plays the Songs Of Daniel Johnston: lavoro onesto, rispettoso nelle intenzioni e modesto nei risultati, conta su una intelligente selezione della scaletta, virata alle note chiare e sorridenti, che non fecero mai difetto alla musa di Johnston. Lo si potrebbe collocare in qualche luogo sonoro a metà fra i più spensierati Beatles (oggetto di un culto quasi religioso da parte sua) e i Beach Boys più pensierosi, ma depurato incautamente di quell’aura splendidamente ombrosa e malinconica che è per Johnston più dell’altra metà del cielo.
https://youtu.be/KgpsX_tilkw
I risultati migliori del lavoro sono da cercare nella byrdsiana triade di apertura (Bloody Rainbow, Tell Me Now e Honey I Sure I Miss You) e non perché questa sia troppo migliore di quel che segue, ma perché poi si inizia ad annoiarsi (Life In Vain e Queenie The Dog vengono su come slavate ed esili pop song). Piuttosto riuscita la sgusciante versione di Fish, gioiello johnstoniano che potrebbe essere uscito dalla penna di Randy Newman, e che chiude il disco. Di Impossible Love, Mountain Top e Fake Records of Rock & Roll non si saprebbe che dire se non che sono piccole anestesie locali, innocue e gradevoli.
Qualcosa non va nella rilettura che i Built To Spill danno di Daniel Johnston
Il guaio vero è che sbadigliare ascoltando Daniel Johnston è inammissibile. In ogni sua raccolta ci si imbatte almeno nella purezza di una linea melodica, in una incrinatura della voce e dell’anima, che, se non si è dei bruti Barbablu, piega le gambe e fa sanguinare il cuore. Per chi scrive, questo momento giunge invariabilmente con Worried Shoes (nel già ricordato Yip/Jump Music) e con Cathy Cline (nel bel Rejected Unknown del 2001). Sono certo però che ogni suo anche distratto ascoltatore porti con sé le proprie madeleines, e un po’ dispiace che davanti a questa uniforme sfilata di canzoni si finisca con il sonnecchiare.
Se è vero che la musica di Daniel Johnston rischia di sciogliersi come neve al sole non appena privata della sua voce incerta, traballante ed eternamente adolescenziale, sismografo stridulo e inconfondibile del cuore di questo indimenticabile sorry entertainer, cosa Johnston intenda per ‘cantare le canzoni degli altri’ si capisce e senza possibilità di errore se solo si ascoltano le versioni di What The World Need Now o delle beatlesiane Got To Get You In To My Life e I Saw Her Standing There: assoluta scarnificazione e riduzione a scheletrica linea melodica.
Consigli per l’ascolto
Di ben diversa qualità il doppio tributo del 2004 The Late Great Daniel Johhston: Covered And Discovered, che si raccomanda per almeno tre buoni motivi. In primis per l’intelligente idea di proporre il “testo a fronte” di ogni pezzo, che rende ragione dell’impossibilità di ‘rifare’ Johnston se non travisandolo. Poi per alcune cover indimenticabili: su tutte, l’ossessiva King Kong reinventata da Tom Waits, lo spumeggiante power pop degli Eels in Living Life e la scura malinconia di Beck in True Love Will Find You In The End. In ultimo per la bellissima foto di copertina, che raffigura Daniel in atto di portare fiori alla propria tomba, istantanea toccante di un uomo che ha mai perso il sorriso, neppure nelle notti più scure.
Dimenticavo: l’ultimo Daniel Jonhston, quello degli anni Duemila, più suonato, più cantato, più prodotto ma mai del tutto istituzionalizzato, è davvero grande. Se vorrete restare stupiti ed ammirati, procuratevi Artistic Vice (1991), che apre la strada alla sua ‘terza maniera’ ed è il suo primo album completamente ‘suonato’, e almeno gli splendidi ed asciutti Lost And Found (2006) e Is And Always Was (2009). Se invece siete alla ricerca di una assolata e pianeggiante scorciatoia lungo la quale si possa piacevolmente assopirsi, allora farà per voi anche questo Built To Spill Plays the Songs Of Daniel Johnston. Siamo quasi certi che Daniel Johnston ne sarà comunque un po’ felice.
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