Dopo cinque anni di silenzio torna David Gray.

Il peccato originale di David Gray è stato il grande successo di White Ladder, il disco del 1998 che conteneva Babylon, brano con cui il musicista inglese centrava il difficile mix tra pop e canzone d’autore. Da lì in poi il suo percorso artistico è stato coerente: un ovvio cd di canzoni accantonate (Lost Songs 95-98) e un seguito un po’ dimesso, ma di grande spessore emotivo, come A New Day At Midnight, uscito dopo la morte del padre.
La carriera di David Gray dopo il 2000
Con Life In Slow Motion, (2005) Gray firma un disco molto patinato, tra orchestra e lustrini, ma sempre di buon livello. I seguenti Draw The Line e Foundling non convincono del tutto, ma con Mutineers (2014) il nostro sforna un ottimo disco, grazie anche al contributo del produttore Andy Barlow e la sua elettronica.
I cinque anni trascorsi tra Mutineerso e Gold In A Brass Age sono per Gray l’intervallo più lungo tra un disco e l’altro; forse il cambio di casa discografica e la ricerca di nuove atmosfere sonore ne sono i motivi. L’incontro col produttore Ben De Vries ha generato gli undici brani modellandoli al cospetto di un suono elettronico piuttosto denso, con risultati affascinanti, ma alterni.
Le canzoni di Gold In A Brass Age
Il programma comincia benissimo con l’infilata di The Sapling, Gold In A Brass Age e Furthering. Qui la sperimentazione funziona bene, con l’algido coro quasi gospel del brano d’apertura, i saltellanti suoni campionati della title-track e gli sparsi tocchi di autotune alla Lambchop di Furthering. Piu in là nella tracklist qualcosa funziona meno bene e canzoni come l’interminabile Hurricane Season, con tanto di cantante d’opera, avrebbero beneficiato di un trattamento più semplice. Siamo comunque di fronte ad un disco onesto e piacevole, a dispetto di alcuni brani deboli, come It’s Late e Hall Of Mirrors, che sbandano in un pop un po’ banale.
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