The Feminine Divine: l’apoteosi muliebre secondo Kevin Rowland e i suoi Dexys.
Kevin Rowland è uno che non ha mai avuto paura di esagerare con musica e modo di proporsi, grazie anche un ego tanto grande da non temere rischi di crolli rovinosi. Basta ricordare lui e suoi Dexys Midnight Runners vestiti da villici irlandesi più shabby che chic nel 1982 di Too-Rye-Ay e poi trasformati in broker della City tre anni dopo per Don’t Stand Me Down. In entrambi i casi la musica era strettamente legata all’immagine, ma era vero anche (e soprattutto) il contrario, dati gli eccellenti esiti artistici dei due album. E che dire del lavoro a proprio nome My Beauty (1999), la cui copertina en travesti triste quasi gli distrusse la carriera (e pochi si accorsero di un contenuto ancor più coraggioso: una raccolta di cover con testi riadattati a tratteggiare un’autobiografia da tossicomane).
Da diversi anni Rowland ha abbreviato in Dexys la sigla dei suoi accompagnatori (che mai durano troppo a lungo in formazione), ma non ha ridotto ambizioni e platealità. Basti pensare a Let The Record Show: Dexys Do Irish and Country Soul, roboante revue con musiche e abiti vintage.
The Feminine Divine arriva dopo sei anni di silenzio discografico
Era il 2017 e da allora sono trascorsi anni difficili per tutti e che in Rowland sembrano aver dato spunto a una profonda meditazione interiore. E se qualcuno, a questo punto, immagina che il nuovo disco risulti sottotraccia – “cantautoriale” magari – si sbaglia di molto. Ancora una volta The Feminine Divine (100%/Universal) mette in scena qualcosa che va oltre la raccolta di canzoni: come il titolo chiarisce subito, il Nostro affronta il suo rapporto, ovviamente conflittuale, con l’altra metà del cielo e lo fa seguendo un percorso chiaramente tracciato sia nei suoni sia nelle idee.
Si parte con tre plateali rimandi all’r&B roboante di fiati dell’opera prima Searching For The Young Soul Rebels, però con modi meno selvatici (sono pur sempre passati 42 anni!) e inevitabilmente meno incisivi . È tutto troppo scintillante, troppo frizzante e forse poco in sintonia con testi dove Rowland mette a nudo il suo totale fallimento nel ruolo, anzi sotto la maschera, del ‘tough guy’. Poi arriva Coming Home che utilizza toni Irish Soul stavolta appropriati all’anelito di normalità che pervade i versi.
È nella seconda parte del disco che Kevin Rowland esplicita le proprie convinzioni
La title-track evolve il discorso passando a esaminare direttamente la relazione uomo-donna e il primo non ci fa una gran figura. Paradossalmente la parte musicale propone un groove soul piuttosto virile alla Isaac Hayes (o alla Baxter Dury, come ha suggerito qualcuno). Rowland recita mentre del canto si occupa la voce femminile.
La caduta definitiva del maschio e la sublime ascesa muliebre (una cosa quasi alla William Blake) avvengono con My Goddess Is e Goddess Rules per arrivare all’apoteosi di My Submission, lentone con orchestra, recitato e un programmatico verso che dichiara “dedicherò la mia vita a servirti”. Si finisce con Dance With Me, il suo r&b moderno e la sua vita di coppia finalmente riconciliata e paritaria grazie alla nuova consapevolezza rowlandiana.
È tutto parecchio egoriferito e melodrammatico, tuttavia è bello avere qualcuno che non teme di essere eccessivo all’interno di una contemporaneità in cui tocca meditare azioni e parole (a meno di non essere nascosti da una tastiera). Magari non hai inciso un disco strepitoso, Kevin, però continua così, fallo per noi pavidi.
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