Jack White celebra con un matrimonio il nuovo Fear Of The Dawn.
È un momento importante per Jack White: pubblica il suo quarto disco solista, Fear Of The Dawn, inizia un tour mondiale e sul palco del celebre Masonic Temple Theatre della sua Detroit, propone il matrimonio e sposa immediatamente dopo la fidanzata Olivia Jean. Tutto molto americano, non c’è che dire. Sembra quasi strano che questo sia “soltanto” il suo quarto disco da solista, visto che tra White Stripes e collaborazioni successive (ricordiamo almeno i Raconteurs), Jack White è in giro da un bel po’ di tempo. La sua musica non ha mai fatto l’unanimità, e certamente questo Fear Of The Dawn non aggiusterà le cose. Se l’ultimo Boarding House Reach giustapponeva molti generi diversi, qui White sembra più deciso a fare davvero ciò che gli piace, il che in questo momento si traduce in una curiosa sintesi hard-prog concepita come una sorta di lunga jam.
La Third Man Records
Le canzoni ci sono, in realtà, ma prevale la sensazione che Jack White abbia speso più tempo a eseguire che non a scrivere i pezzi di Fear Of The Dawn. Soprattutto perché suona spesso tutto lui, accompagnandosi a volte alla band che lo segue in tour, e soprattutto al batterista, il notevolissimo Daru Jones. Aggiungete che ha registrato e prodotto tutto nel suo studio privato – che è poi anche l’etichetta Third Man Records – di Nashville e il quadro è completo. Il rischio reale è che tutta questa insularità e autoreferenzialità scolleghino l’autore da ogni giudizio esterno, da ogni confronto. È un bene o un male? La risposta, evidentemente, risiede nell’impressione che questo disco vi farà.
L’inizio del disco
Si parte a razzo con il riff di Taking Me Back, uno fra i momenti che emergono meglio dal disco, per poi passare senza che ci si accorga di nulla alla title track e a The White Raven. White non risparmia le corde vocali, con la voce stridula che tira fuori molto spesso, e tra chitarroni e tastierone il tutto rischia di diventare indigesto troppo in fretta. Però il nostro si lancia in una curiosa Hi-De-Ho che campiona e interpola il motivo di Cab Calloway “Hi-De-Ho Man”, che in realtà è una rielaborazione della canzone simbolo del cantante jazz, Minnie the Moocher. Qui fa riposare l’ugola e lascia la scena a Q-Tip: alla fine strampalata ma non male.
La fobia dell’alba
Eosophobia, che in greco significa Fear Of The Dawn, parte con un basso dub e poi succede un po’ di tutto, senza troppo senso. Il brano ha anche diritto a una reprise che parte con un a solo di White e poi anche qui piglia altre direzioni. Il disco è quasi tutto costruito così, anche se dub e rap sono soltanto ospiti, e come detto sono hard rock e prog a farla da padroni. Into The Twilight e Morning Moon and Night sono, per me, I momenti migliori, o almeno quelli in cui si distingue di più la canzone. Così come la lenta e conclusiva Shedding My Velvet, forse preludio al secondo disco dell’anno che White promette per luglio, e che dovrebbe essere più quieto e acustico.
Jack White e il sistema solare
Giudizio: per quanti sentono l’assenza dal mainstream di musica rock, questo potrebbe risultare una buona occasione. Per quanto mi riguarda, Jack White ha talento, e se a tratti l’isteria della voce e quella degli strumenti sembrano prendere il sopravvento, ci sono altri momenti che mi fanno ricredere. L’autoreferenzialità, comunque, nel suo caso mi pare eccessiva e penso che la sua musica si avvantaggerebbe di una maggiore condivisione. Qui pare rispecchiare il testo di Eosophobia (Reprise), che temo essere autobiografico: “You think the sun listens to no-one / But you’re wrong / It listens to me”.
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