Kevin Rowland ripropone 40 anni dopo Too-Rye-Ay “come avrebbe dovuto suonare”
È ancora molto vivido, nella mia memoria in fase di dismissione chimica, il ricordo di quando e come ascoltai per la prima volta Too-Rye-Ay nel 1982. Acquistato il disco il giorno medesimo dell’uscita, lo registrai immediatamente su cassetta perché la sera stessa sarei partito con un amico più grandicello alla volta di una località montana così lontana ma così vicina dove la raccolta delle castagne avrebbe caratterizzato il weekend. La mia precoce misantropia mi permetteva allora (ma pure adesso) di compiere azioni sociali in totale isolamento e quindi, walkman alle orecchie e schiena piegata, raccolsi sia i frutti dalla spinosa placenta che le meravigliosamente anacronistiche songs di quel disco, uscito in un’epoca dove imperavano ben altri suoni.
Più o meno in questo periodo, l’anno scorso, Kevin Rowland annunciava che aveva messo mani, insieme alla violinista Helen O’Hara che di Too-Rye-Ay fu, a tutti gli effetti potente motore innovatore dei suoni celtic soul, ai master dell’album perché dichiaratosi mai soddisfatto del mix originale e, da qui, il sottotitolo “come avrebbe dovuto suonare”.
L’operazione Too-Rye-Ay 2022
Ora che ho per le orecchie il disco, a tratti, sorrido: Kevin Rowland è un genio, oltre che musicale, anche della sottile arte del farti ascoltare lo stesso disco che hai consumato e metabolizzato ennesime volte con variazioni talmente birbanti che gli perdoni anche questa operazione. Un’operazione che trova, però, nella sua edizione a tre cd (o 4 LP per i neovinilofili) una piacevole compiutezza dell’intero periodo con un cd di b-sides e unreleased versions e, soprattutto, con un intero live al London’s Shaftesbury Theatre nell’Ottobre del 1982 che, da solo vale l’acquisto del boxset (meno oneroso di un singolo vinile…) in quanto ripropone in versione dungaree anche alcuni classici del primo grande album, Searching For Te Young Soul Rebels.
Si sarà, a questo punto capito, che per i Dexys e Rowland ho qualcosa di molto più simile a una cieca devozione che una semplice passione (un loro brano è nell’elenco di quelli da suonare alla mio funerale) e quindi , più che un semplice ripasso, posso cogliere finalmente l’occasione non avuta ai tempi di recensire l’intero disco (come avrei dovuto scriverla…).
Una per una, le canzoni di Too-Rye-Ay
L’attacco di The Celtic Soul Brothers è programmatico di quello che, a tutti gli effetti, oggi possiamo vedere come un concept che parte con una introduzione come se ci trovassimo in un live (e la lezione di Sgt. Pepper ancora si faceva sentire nel 1982) e dove i fiati della precedente incarnazione si affiancano alla furia celtica di violini e accordion dei nuovi arrivati nella band, che già non era più quella del primo album salvo sparuti, ma importanti, sopravvissuti alla leadership intransigente ma necessaria di Rowland.
Let’s Make This Precious riaggancia il filo con il rhythm’n’blues ma, anche qui, gli archi si impongono nella calda esortazione del leader, All In All è, come il sottotitolo suggerisce, un killer passional waltz ammantato di passione che introduce Jackie Wilson Said, cover di Van Morrison resa, per il sottoscritto, con sconsiderata appropriazione benevola per arrivare alla grandiosità di Old (scelta, tra l’altro, per questa ristampa, come singolo apripista).
Colgo l’occasione per ricordare come Rowland, per distinguersi, se mai ce ne fosse stato bisogno, dai singers della sua epoca, fece la scelta di cantare ogni canzone come se stesse piangendo – ditemi come si fa a non amarlo…Quella che all’epoca era la facciata B si apriva su un joyciano stream of consciousness musicale, composto da tre songs. Lo introduce una versione di Plan B totalmente diversa dal fallimentare singolo ma, non per questo, ammantata da alcuna ruffianeria riparatoria, collegata a I’ll Show You, uno dei primi passi tra parlato e cantato che avrebbero reso enorme (e assassinato commercialmente) il successivo album, Don’t Stand Me Down e, a chiudere il trittico, Liars A to E, altro singolo ignorato e ivi glorificato invece dal contesto generale.
Il tripudio finale e la canzone più celebre di Kevin Rowland
Con Until I Believe In My Soul riappaiono le ombre benevole di Sam Cooke e Otis Reding, prodromiche del gran finale affidato alla sconfinata contagiosità di Come On Eileen, ancora oggi uno dei brani di quegli anni che appare quando meno te lo aspetti e che, con il titolo dell’album come ritornello, provoca ancora scosse telluriche a corpo e anima.
Mi sono un po’ dilungato in questa mia personale passion revue, ma mi si conceda il lusso di una petroliniana malinconia alla pizzaiola. Concludo consigliando a grandi e piccini che non conoscono questo eterno classico di accaparrarselo come e meglio credono. Io ho ancora la cassetta da qualche parte… E aspetto il nuovo album che pare essere alle porte. Dear Kevin, Toodle langa langa toodle langa fang.
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