Paul Weller si autoripercorre in chiave orchestrale
Paul Weller è entrato a tempo pieno nell’agone del rock britannico quando era giovanissimo, inquieto e determinato. Al termine dei turbolenti anni Settanta il ragazzo aveva dei punti di riferimento musicali, stilistici ed esistenziali di grande prestigio e li ha seguiti con pervicace passione.
Col tempo, ha dato prova di essere un artista eclettico, elegante e di grande personalità. Dopo quattro, intensi decenni non stupisce affatto che l’esigenza di trovare strategie comunicative nuove si faccia pressante. Le modalità per tentare di portare a termine con successo questa complessa operazione di ricerca stilistica possono essere le più disparate. Mr. Modfather ha scelto di aprire lo scrigno del suo ricco repertorio artistico e di prelevare alcune preziosità (diciotto, per l’esattezza) per sottoporle ad una sontuosa operazione di restyling.
Il progetto An Orchestral Songbook…
Con la collaborazione dell’arrangiatore Jules Buckley e della prestigiosa orchestra sinfonica della BBC, Paul Weller infonde un’allure di indubbia raffinatezza ai suoi brani più celebri. Il risultato è An Orchestral Songbook (Polydor), registrato al Barbican Center di Londra nel maggio scorso. L’album è affascinante, ma presenta qualche aspetto ambivalente. Il punto, banale finché si vuole, è: se ne sentiva la necessità? Ovviamente sì, nell’ottica di Mr. Weller che, in definitiva, ammettiamolo, è esattamente l’ottica che conta (senza quella il disco non ci sarebbe stato). Dal punto di vista dell’ascoltatore la questione risulta un po’ più complessa… e controversa.
…e la scelta del repertorio
English Rose, ad esempio, appartiene al repertorio dei Jam ed è una delle poche ballate della band. Ascoltarla accompagnata da un tripudio di archi può risultare gradevole ma un po’spiazzante. Gli arrangiamenti di Jules Buckley non sono particolarmente invasivi e si rivelano efficaci soprattutto in brani come You’re The Best Thing, gioiello dell’epoca Style Council, (notevole il fil rouge generazionale creato dalla presenza di Boy George) o You Do Something To Me, uno dei più incantevoli del repertorio solistico di Paul Weller. Broken Stones, deliziosa nella sua veste vagamente soul, e Wild Wood presentano altre due collaborazioni vocali: James Morrison e Celeste. Sia l’uno che l’altra appartengono a una diversa sfera generazionale e artistica, ma svolgono il loro ruolo con diligenza, guidati da cotanto maestro.
Restano da segnare la sobria eleganza di Bowie, tratta da True Meanings, e la profonda ammirazione per la smagliante bellezza della voce di questo ultrasessantenne che non sembra avere alcuna intenzione di cedere alle insidie del tempo. Quindi ha piena facoltà di concedersi questa parentesi tanto fascinosa (inclusa copertina che ricorda Lady Sings The Blues di Billie Holiday) quanto “divisiva”.
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