Dopo sei anni tornano gli Slowdive con Everything Is Alive. E anche lo shoegaze è vivo.
Nel corso della loro prima esistenza, fra 1989 e 1995, gli Slowdive incidono tre album. Il secondo di questi, Souvlaki (1993), diviene subito il manifesto programmatico di quel movimento sonoro, amato per la sua oniricità e vituperato per lo stesso motivo (però chiamato soporosità) detto shoegaze: chitarre elettriche stratificate, melodie circolari e voci eteree. L’approccio è malinconico, trasognato e meditativo, da cui l’idea-manifesto dello sguardo rivolto in basso verso le proprie scarpe.
Poi c’è un’interruzione di 19 anni durante i quali i due leader della band, Rachel Goswell e Neil Halstead si dedicano a diverse attività sonore fra cui l’ingiustamente dimenticato progetto Mojave 3, dai contorni più autoriali e filo-americani (da ascoltare soprattutto il terzo album, Excuses For Travellers, uscito nel 2000).
La seconda vita artistica degli Slowdive e la genesi di Everything Is Alive
La sigla Slowdive riappare nel 2014 e tre anni dopo arriva l’ album ononimo, molto ben accolto dai fan per quanto un po’ trattenuto nelle emozioni. Il nuovo Everything Is Alive (Dead Oceans) nasce come demo casalingo di Halstead che viene elaborato collettivamente fra 2021 e 2022. A dare il tocco finale provvede Shawn Everett, produttore fra gli altri di Alvvays e The War On Drugs.
Le canzoni del disco
Complici anche alcuni lutti familiari e, forse, una certa tristezza per l’arrivo della mezza età, Everything Is Alive è il lavoro più meditativo (oltreché più lineare) del gruppo. L’iniziale Shanty illustra la novità sonora più sostanziosa: la forte presenza di tastiere elettroniche dai suoni anni ’70 ‘krautrock’ (definizione orribile eppure utile). Ma, attenzione qui non siamo nel capanno motorik dei sempre trendy Can, piuttosto nel cosmo modulare dei Tangerine Dream. Poi la voce di Rachel Goswell riconduce a territori più slowdiviani e l’hammered dulcimer dà all’insieme un tocco arcano alla Dead Can Dance.
Poco più avanti arriva una triade di titoli legati come non mai alla forma-canzone, in particolare la struggente Andalucia Plays che fa pensare proprio ai Mojave 3. E attenzione anche alla fluida e appena appena pop Kisses, con video girato a Napoli.
Curiosamente è proprio il pezzo più vicino agli Slowdive prima fase, Skin In The Game, con i flussi di chitarre elettriche in primo piano, a risultare affaticato e irrisolto. Molto più evocative risultano invece le tastiere senza fronzoli (clusteriane, per proporre un altro paragone teutonico) di Chained To A Cloud. A fine programma The Slab scioglie le briglia dell’epica, salvo perdere convinzione verso metà strada.
Il pezzo riassume in sé un po’ tutto l’album che è molto apprezzabile, migliora le posizioni rispetto al precedente e si evolve nella continuità, fatto non da poco per una formazione così tanto caratterizzata nei suoni e nell’approccio. Al tempo stesso manca ancora qualcosa in questo pacato rinnovamento, forse il coraggio di lasciarsi andare, di scordarsi, anche solo per un attimo, le scarpe sul pavimento per volgere la faccia verso l’alto. Magari dipingendosela di blu, come suggeriva un noto hitmaker italiano.
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