È arrivato! The Cure – Songs Of A Lost World.
Sedici anni. Ed eccolo qui. Il ritorno perfetto dei Cure. Quello che volevamo sentire. Senza ombra di dubbio il loro lavoro migliore da Wish, che si accosta alle perle degli anni ’80. Ma non racconteremo della genesi e di tutte le mille storie che ci sono dietro l’album. Queste si possono leggere ovunque. Proveremo invece a raccontare i brani. A sentirli davvero. Sono passati sedici anni. Lo dobbiamo a Robert Smith e a tutta la band. E lo dobbiamo anche a noi stessi. Perché Songs Of A Lost World non è un album dove si può passare al brano successivo, non si può lasciare a metà nessun brano. Anche a volerlo fare, sembra esserci una forza che non te lo permette. Ed è la forza della composizione musicale. Tutta. Dalla produzione, alle ritmiche, alle melodie, fino alla voce perfetta di Robert Smith. È tutto così assoluto che all’ascolto non sembrano nemmeno distinguersi i vari strumenti. Per un unico grandissimo affresco sulla vita di ognuno di noi. Un affresco che diventa universale. Del resto, non è per tutti noi, questo che stiamo vivendo, un mondo senza più speranze, un mondo perso?
Partiamo dalla fine
La fine. Endsong. Partiamo dalla fine, sì. L’ineluttabilità della fine. Con percussioni e un tappeto sonoro di tastiere e chitarre. E poi, dopo due minuti e mezzo, uno stacco che fa rientrare gli arpeggi sul mi minore di fabbrica Cure, mentre i riff si fanno più articolati sul crescendo, quasi a invocare la voce di Robert. Che entra a sei minuti e mezzo a chiosare l’intero l’album: « And I’m outside in the dark staring at the blood red moon / Remembering the hopes and dreams I had and all I had to do / And wondering what became of that boy / And the world he called his own / I’m outside in the dark wondering how I got so old / It’s all gone, it’s all gone». L’ultima parola cantata dell’album è nothing. E forse basta già soltanto leggere la tracklist per rendersi conto del tenore dell’album.
I testi di Robert Smith
I testi di Robert non danno speranza. Nessuna. La musica invece pare evocare già una dimensione ultraterrena. Sembra di camminare nella luce. E credo siano in particolare il piano e le tastiere a infondere questa sensazione di benessere. Una sorta di post vita, che però non è ancora morte. Succede questo nei primi tre minuti di Alone, anche se «This is the end of every song that we sing / The fire burned out to ash and the stars grown dim with tears».
Spazio a tutti i musicisti dei The Cure impegnati in Songs Of A Lost World
Il giro di piano di And Nothing is Forever non fa che confermare quella sensazione di pace senza morte. Il riff di apertura di A Fragile Thing pare riportarci agli anni d’oro. Le due note del basso di Gallup scandiscono il tempo. E poi Warsong con un intro di fisarmonica e la chitarra che adesso non piange più, adesso sa soltanto gridare, perché «[…] We tell each other lies to hide the truth», perché c’è solo «Poison in our blood and pain, broken dreams, mournful hopes / For all we might have been, all misunderstood», perché « All we will ever know / Is bitter ends / For we are born to war». Il riff in quattro di Drone: Nodrone spinge sul groove del chorus, «But the answers that I have / Are not the answers that you want». E qui c’è spazio anche per i virtuosisimi di Gabrels. Si tratta del brano meno in linea con l’album. Un brano che strizza forse un po’ troppo l’occhio a un sound pop. Ma ad averli brani così. E poi quasi una Natura maligna che arriva col tuono, col fulmine che spacca, con la pioggia nera, «To steal away my brother’s lifе / Something wicked this way comes / I can nеver say goodbye». Qualcosa che impedisce anche l’ultimo saluto. Nemmeno l’amore è abbastanza, in All I Ever Am, mentre una perfetta progressione armonica avanza fino a giungere alla voce di Robert.
Sedici anni. Tanti, tantissimi. Ma ne è valsa la pena. Forse questo è il tempo giusto per fermarsi a pensare. A pensare che forse davvero soltanto la fine può rimetterci in pace e dare inizio a una nuova vita. Grazie per il tempo. Che non è mai vuoto.
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