Dopo Stranger, Yung Lean torna con Poison Ivy.
L’emorapper Yung Lean torna con Poison Ivy a un anno di distanza dall’ottimo Stranger. Difficile dire se sia da prendere per un mixtape, uno di quei progetti intermedi così frequenti nel rap. Servono, in un mercato affollato, a non far spostare l’interesse. Comunque, con Poison Ivy Yung Lean e il produttore Whitearmor (vero nome: Ludwig Rosenberg) costruiscono un disco vero, sebbene breve, con brani originali e basi tutte nuove.
Yung Lean continua a interessare
Allora, il paragone con Stranger non si può evitare. La prima cosa che stupisce è come il rapper che in uno dei momenti migliori, Agony, scriveva “Can’t write a song, only do hooks”, abbia messo insieme otto (ma la finale Bender + Girlfriend è doppia) canzoni in cui proprio gli hooks mancano. Su Poison Ivy non troverete niente di immediatamente accattivante come Red Bottom Sky o Iceman. E nulla del livello della già menzionata Agony.
Detto questo, non bisogna neppure pensare che Poison Ivy sia privo di meriti. Le due canzoni iniziali, Happy Feet e Friday 13th, sono notevoli. E, se non altro, dopo l’interesse raccolto fa piacere vedere che non ci siano svolte mainstream.
Le canzoni migliori di Poison Ivy
La seconda, in particolare, illustra un testo ispirato ai film horror con un video pure inquietante, ma per altre ragioni. Come nelle basi di Whitearmor, è impossibile non respirare un’aria molto scandinava. E il fatto di staccarsi dalle solite produzioni americana è una ragione in più per apprezzare Yung Lean. Sauron, verso la fine, è un altro momento notevole.
Ambient + hip-hop
E per il resto Poison Ivy conquista lentamente com’era successo con il precedente. Per Stranger avevamo parlato di ambient-music che incontra l’hip-hop, il che funziona anche per Poison Ivy, solo lievemente meno d’impatto. È un percorso affascinante, quello di Yung Lean, nel quale vale la pena seguirlo.
Be the first to leave a review.