Sun Kil Moon e il tragico flusso di coscienza di Benji.
Monumentali dischi autobiotragici: Tonight’s The Night di Neil Young, Magic And Loss di Lou Reed, Electro-Shock Blues degli Eels, Micah P. Hinson And The Gospel Of Progress, Last Of The Country Gentlemen di Josh T. Pearson, The Graceless Age di John Murry.
All’elenco si aggiunge la new entry Benji di Sun Kil Moon/Mark Kozelek che è forse il più tragico di tutti: una sequenza di morti e disgrazie a ritmo serrato che rischia di apparire psicotica, morbosa o anche grottesca e di far passare i Sepolcri foscoliani per lettura garrula. Il riconoscibile modo di comporre ‘a flusso’ dell’ex Red House Painters (ballatone acustiche ad andamento circolare con pochi ritornelli o incisi che alternano momenti sommessi ad altri incalzanti) si associa bene a testi al solito in forma di flusso di coscienza per così dire strutturato: una disgrazia, un po’ di autobiografia, un po’ di meditazioni sull’esistenza e su come finisce, un ricordo, una nuova disgrazia e, per chiudere il cerchio, il ritorno alla disgrazia originaria.
Ciò detto, e per quanto improbabile possa sembrare, Benji è un disco che risulta consolatorio e non solo perché attribuisce un’importanza fondamentale agli affetti familiari (I Love My Dad, I Can’t Live Without My Mother’s Love). Brani come Richard Ramirez Died Of Natural Causes oppure Pray For Newtown colpiscono per la loro emotività scoperta e attonita e sembrano dire che vivere è un atto di responsabilità rischioso ma comunque interessante.
A questo punto ci si dimentica di tutto il turgore tragico e, se non fosse per i dieci piattissimi minuti amelodici di I Watched The Film The Song Remains, si potrebbe parlare di capolavoro etico-sonico.
7,8/10