di Flavia Ferretti
Con Long Lost Suitcase Tom Jones conferma la saggezza sopraggiunta e una sapiente moderazione messa a servizio di quella voce possente ricevuta in dono, finalmente addomesticata a registri meno enfatici e muscolari e meno ammantati di grandeur. E grandeur è stata sotto molti profili, incluso quello squisitamente musicale con hit tonanti e sexy quali What’s New, Pussicat? e Delilah e una regale permanenza a Las Vegas (e come non ricordare l’epica chiusura di My Way, cover dal repertorio di Sinatra: la sua versione sarebbe stata il perfetto contraltare di Rosella O’Hara nell’inquadratura finale di Via Col Vento). Fu amico di Elvis, con il quale si divertiva a gareggiare a chi manteneva gli acuti più a lungo – e immaginiamo pure il giro infernale delle girls intorno, essendo i due entrambi appetibili manzi all’epoca. Elvis, amico troppo ingombrante, ma battuto almeno in longevità. Non dimentichiamo infine il profilo più “basso corporale”, il testosterone che spettinava le fans: mia madre all’epoca aveva un paio di 45 giri del bel Tom e si ballavano le sue canzoni in cucina tenendo per mano la sorella piccola.
foto: Harry Borden
Le foto promozionali del disco (il terzo di una trilogia che recupera le radici e influenze musicali blues-soul del nostro) restituiscono l’immagine di un uomo a 75 anni sempre fascinoso e di fiero sguardo; immaginiamo si sia più commosso che divertito a incidere questo lavoro con la granitica voce che il passare degli anni non ha intaccato e che in alcuni brani si dispiega ancora come un ruggito; questo significa che si può essere rocker a 70 anni suonati a dispetto di quanto sostengono gli Who in My Generation: macché, qui si canta alla grande con leggerezza e intensità. Siamo ben lontani dal cazzaro Reload (1999), peraltro godibilissimo e testimone della duttilità di questa grande voce. Long Lost Suitcase è invece un lavoro ispirato che prima sorprende per i motivi sopracitati, poi conquista in alcuni intensi passaggi proprio quando la voce si fa più rotta e paradossalmente scarna nella sua nudità; citiamo ad esempio il brano di apertura Opportunity To Cry di Willie Nelson, su cui Sir Tom intesse un’interpretazione desolata e perfetta; o ancora Honey Honey in duetto con Imelda May, uptempo di pregevole grazia; prosegue il blues più convenzionale di Take My Love con la possente interpretazione che, ricordiamo, è la sua firma vocale. Il disco prosegue con la sensuale Bring It Home, passionale con moderazione, tra rallentamenti e sussurri da crooner di razza allacciati a un giro di accordi di chitarra del Delta incisivi e puliti; il disco risale di beat con Everybody Loves A Train che conduce ad uno dei vertici del disco, Elvis Presley Blues, song di Gillian Welsch commovente e lirica, riverberata solo da un tremolo di chitarra che aggiunge pathos alle parole scandite come una preghiera: “Stavo pensando quella notte ad Elvis, al giorno in cui è morto, era solo un ragazzo impomatato che indossava la camicia fatta da sua madre, si buttò nella mischia e infiammò l’aria come una ballerina di fila, un vagabondo alla fine della notte , come una regina di Harlem, come non avevi visto prima mai, mai, mai”. Notevoli pure He Was A Friend Of Mine, toccante senza sbavature, buone comunque anche le tracce di interpretazione più convenzionale Factory Girl e I Wish I Could (peccato per un retrogusto insinuante sapori “Doors”) e Why Don’t’ You Love Me, rendition di Hank Williams in un folk fresco e netto, con pochi strumenti. Dunque un disco davvero pregevole e il baronetto Tom Jones si merita il nostro plauso; in questo disco scorre tutto il suo grande amore per questa musica e per la musica che mantiene giovani e scintillanti. E bravo Tom.
8/10
httpv://www.youtube.com/watch?v=COYnl5CK0iw
Elvis Presley Blues (Later with… Jools Holland)