Ron Howard è un regista molto apprezzato da una Hollywood che non esiste (quasi) più. In Eight Days A Week Howard racconta il periodo più frugale dei Beatles, quello fino al 1966, quello delle tournée una dietro l’altra. Non a caso il sottotitolo è The Touring Years.
I Beatles avevano firmato un contratto sciagurato in base al quale i loro guadagni erano legati in gran parte ai concerti. Questi concerti, è bene dirlo subito, si svolgevano in condizioni proibitive. Mancavano i monitor sul palco, con cui i musicisti riescono a sentirsi e ad armonizzare.
Gli impianti di amplificazione erano poco potenti. E nei grandi spazi all’aperto (i Beatles furono i primi utilizzarli) la diffusione del suono era affidata ai megafoni che di norma servivano ad annunciare i nomi dei giocatori di baseball. Inevitabile dunque che le performance dei Beatles fossero soprattutto urla delle fan e sudore del servizio d’ordine.
Il punto di vista di Ron Howard sui Beatles è sin troppo ‘americano’
Eight Days A Week è la vicenda di un gruppo di amici carichi di entusiasmo e simpatia che sbaragliano la storia della musica e che solo durante l’ultima tournée americana cominciano a provare disagio e fatica. Il punto di vista di Howard è prettamente statunitense.
Si racconta dell’arrivo dei Beatles in terra americana poco dopo l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy (il legame fra i due eventi è in realtà molto tenue) e si dà grande spazio al concerto allo Shea Stadium di New York davanti a 56.000 spettatori.
Altro elemento importante è la presenza di materiali poco noti e sorprendenti. Una folla oceanica che intona She Loves You allo stadio di Liverpool, i quattro che si rifiutano di suonare a Jacksonville, Florida, in caso di segregazione razziale degli spettatori. Belle sono anche le testimonianze di fan poi diventati famosi come Elvis Costello o Whoopi Goldberg (“I Beatles erano colourless, senza colore”).
Un film piacevole che tuttavia omette cose importanti
Dunque si tratta di un buon film che al tempo stesso è troppo buonista, visto che esclude un’ampia porzione di realtà beatlesiana e risulta un po’ censorio. Non si parla, se non fugacemente, di droghe; non si fa un minimo accenno alle groupies; si approfondisce poco o nulla una figura decisiva e chiaroscurale come quella di Brian Epstein; si cancella del tutto l’esistenza di Pete Best nella storia della band; si elimina il lato politicamente scorretto del primo John Lennon.
Il risultato complessivo è un po’ zuccheroso, la favola di quattro ragazzi che partono dal nulla e diventano famosissimi. E’ una storia che si potrebbe definire, viste le lontane origini come attore di Howard, un po’ troppo Happy Days. I Beatles non sono solo questo; sono geni del pop che hanno dato il loro meglio non davanti al pubblico ma nel chiuso dello studio di registrazione.
Il modesto consiglio di John Vignola è questo: dopo aver visto il film, ascoltate (o riascoltate) Abbey Road. Fa bene alla pelle e al cuore.