Intervista al “cantattore” irlandese Steve Wall, interprete di Chet Baker nel film Jazz Noir

Steve Wall è cantante e leader di The Stunning e The Walls, due tra le più acclamate rock band irlandesi, e da attore ha recitato in vari ruoli tra cui la parte di Einar nelle stagioni due, tre e quattro di Vikings.  

Rimane comunque di fondo un musicista. E perché non dovrebbe? Paradise In The Picture House, l’album di debutto degli Stunning, uscito nel 1990, è diventato uno degli album irlandesi più venduti di tutti i tempi rimanendo per cinque settimane di fila al primo posto delle classifiche. Si può quasi dire che ogni famiglia irlandese ne possiede una copia. Il loro singolo Brewing Up A Storm è ormai assurto a inno nazionale alternativo, una canzone trascinante che viene suonata durante gli eventi internazionali di calcio e rugby. Dopo lo scioglimento degli Stunning nel 1994 Steve e suo fratello Joe hanno quasi immediatamente formato The Walls, un gruppo che finora ha pubblicato tre album. Il loro quarto album adesso è pronto per uscire nel 2022.

Steve ha finalmente avuto la sua chance come attore principale in Jazz Noir di Rolf van Eijk, una ricostruzione degli ultimi giorni ad Amsterdam della leggenda del jazz Chet Baker, prima della sua morte cadendo da una finestra il 13 maggio 1988. Se il film risulta, a mio avviso, stereotipato e prevedibile l’interpretazione di Chet Baker da parte di Steve Wall è assolutamente carismatica. Com’è riuscito a insinuarsi nella pelle di Chet Baker in maniera così convincente? Come ha fatto Steve Wall a diventare Chet Baker e regalarci una straordinaria performance? 

Steve, è stato forse per via della tua faccia che ti hanno scelto per la parte?

No, ma lascia che ti racconti com’è andata. L’agente che avevo qualche tempo fa mi chiese delle fotografie. Le chiamano foto-ritratto. Ne ho fatte alcune dove le mie guance erano veramente incavate. Le ho mandate lo stesso e ho detto alla mia agente: “Se ne trovi una decente fra queste fammi sapere quale. Spero ne trovi una dove non ho l’aspetto di un eroinomane”. Alla fine del messaggio ho scritto per scherzo: “A proposito, se mai ci fosse un ruolo per Chet Baker proponimi, ha ha ha”. Questo accadeva quattro anni prima delle riprese del film.

Vuol dire che era destino!

È stato un colpo di fortuna! Quando ho ricevuto la chiamata per il provino per il ruolo di Chet Baker ho pensato che lei si fosse ricordata della mia mail di quattro anni prima. Ma non poteva essere così perché la proposta mi è arrivata attraverso un altro agente. Insomma, è stata pura fortuna. Gli attori vengono scelti in base a una selezione chiamata “spotlight”. Tu ti proponi in vari modi, fai sapere se sai parlare una lingua straniera o conosci le arti marziali o andare a cavallo, questo tipo di cose. Poi la tua altezza, il colore degli occhi, se hai la barba o non ce l’hai. Gli agenti che fanno il casting per un film utilizzano questi termini di ricerca, funziona tutto secondo i tag. Io avevo scritto “so cantare” e “sono un musicista”, ed è così che mi hanno trovato. C’erano due attori con cui erano in contatto. Uno era Willem Dafoe.

Willem Dafoe sarebbe stato senz’altro adatto.

Non avrebbe certamente avuto bisogno delle protesi che hanno dovuto mettere su di me. L’altro attore con cui stavano parlando era Val Kilmer, che aveva interpretato il ruolo di Jim Morrison nel film The Doors. Probabilmente non avevano abbastanza soldi per pagare attori così grandi. Ho lavorato duro per prepararmi al provino. Oggigiorno i provini si fanno mandando i cosiddetti “self tapes”, dove tu filmi te stesso sul cellulare, preferibilmente con un altro attore che legge le altre battute per rendere il tutto più spontaneo. Mia figlia ne fa un sacco con me e sta diventando proprio brava. A volte ti chiedono di stare in piedi e fare un’inquadratura a figura intera. Ma io non ho avuto bisogno di un altro attore perché le scene che mi avevano richiesto riguardavano una telefonata.

Ricordo la scena. Da una cabina telefonica. Lui cerca di chiamare la sua compagna per chiedere perdono dopo averla picchiata.

Quando mi hanno chiesto di fare il film ero galvanizzato dall’idea. Ho pensato che fosse il ruolo dei miei sogni. Infatti ero un fan, e sono tuttora un fan, di Chet Baker. Ho la sua musica sia in vinile che su CD. E sapevo un po’ di cose su di lui. Ogni volta che ti chiamano per mandare un provino il messaggio è “faccelo avere entro due giorni”, o qualcosa del genere. Ti danno ben poco tempo per prepararti. Così ho raccontato una piccola bugia. Ho barato dicendo che ero in vacanza, e che avrei avuto bisogno di un po’ di tempo. Non era vero, ero a casa. Ho cominciato a guardare qualsiasi intervista reperibile su YouTube, a leggere materiale, ascoltare musica, a cantarci sopra. Trovare il giusto tono della sua voce è stata la sfida più grande. Ho sperimentato di tutto. Lui ha una voce molto più acuta della mia, un timbro di voce alto, molto gentile, molto delicato. Pasticciando di qua e di là ho finalmente scoperto che schiacciandomi il naso riuscivo ad ottenere la sua voce. Perché aveva il naso rovinato dalle sniffate di cocaina o chissà quali altre sostanze. Così mi sono infilato piccoli lembi di kleenex nel naso, non troppi, il giusto per ottenere il timbro nasale tipico della sua voce. Al momento del provino le luci erano spente, tranne un paio di lampadine sul comodino, per creare un’atmosfera noir mentre lui si trova nella cabina pubblica, di notte, e sta telefonando. Ho mandato il provino. Per circa tre mesi non ho avuto nessuna notizia, tanto che quando mi hanno chiamato per dirmi che la parte era mia sono rimasto davvero sorpreso. E da lì in poi ho dato tutto me stesso.

Quali sono le scene che hai fatto con maggior piacere?

Una scena in un piccolo locale di Amsterdam.

Quella in cui svieni?

Non quella. È la scena in cui canta My Foolish Heart. Il locale è molto piccolo, e Chet era veramente salito su quel palcoscenico. È stata una cosa straordinaria starsene lì seduto proprio dove lui aveva realmente cantato quella canzone. Il proprietario del locale oggi è lo stesso proprietario di allora. Quando mi ha visto entrare con il costume di scena e la custodia della tromba ha avuto un mezzo infarto.

Questo dimostra che eri entrato nella parte.

Ho dato tutto me stesso. Quella scena mi è piaciuta in particolar modo perché si è svolta tutta dal vivo, senza sovrincisioni o nulla del genere. Il tutto fatto con un microfono a poco prezzo.

Mentre cantavi non mi dire che ti sei messo quella roba nel naso.

Certo che sì! Era difficile respirare bene. Mi sono persino preso una sinusite a causa di quelle cose infilate nel naso quotidianamente per un mese e mezzo. Dovevo stare attento. Ho cominciato a comprare degli appositi tamponi da una farmacia. Li tagliavo a quadretti e usavo tamponi medici sterili.

È il prezzo che si paga per la gloria.

Sono davvero orgoglioso del lavoro che ho fatto, a dir la verità. Per me è stata la prima volta in cui ho recitato in un ruolo come questo. Fino ad allora avevo avuto solo ruoli secondari. Arrivavo sul set, ci stavo qualche giorno, un paio di settimane, poi il mio personaggio veniva ucciso e tanti saluti. Questo lavoro mi ha deliziato perché ho potuto immergermi nella ricerca. Ci pensavo ogni giorno in cerca di un modo per entrare nei panni di Chet Baker e dar vita a un ritratto che fosse credibile.

Miles Davis e Chet Baker furono due leggende della tromba nel jazz. Nel caso di Miles Davis risulta facile trovare un punto di contatto con il rock se si pensa a quanto egli fosse profondamente influenzato da Jimi Hendrix a un certo punto della sua carriera. Invece,  per quanto riguarda Chet Baker faccio fatica a trovare un punto di contatto con la musica rock. Tu ci riesci?

No. Non gli piaceva. E non gli piaceva neppure il tipo di jazz veloce che proveniva da New York. Lui è sempre stato un vero tradizionalista. Amava gli standard tipici del classico canzoniere americano. Persino il free jazz era troppo sperimentale per lui, non ne voleva sapere.

 

Miles Davis si avventurò persino nell’hip hop poco prima di morire. Quello non era affatto lo stile di Chet Baker.

Miles era l’eroe numero uno di Chet. Ma quando si incontrarono fu una delusione per Chet. Chet era stato appena votato come miglior musicista da una famosa rivista jazz degli anni cinquanta e sessanta. Era giunto in cima al sondaggio come miglior trombettista. Miles era infuriato, come a dire “eccoci alle solite, si presenta il ragazzo bianco, ha appena calcato le scene e questo nuovo arrivato ottiene il massimo dei voti”. Penso si fossero incontrati al Blue Note di New York. Non andò bene. Miles lo snobbò.

C’è un momento nel film in cui Chet Baker dice “ho fatto un patto col diavolo. Mi ha permesso di prendere tutte le droghe che voglio, di goderne, e di non morire” – se ricordo bene le parole – “a patto che io suoni sempre con il cuore”. Non avevo mai sentito dire che Chet Baker avesse fatto un patto con il diavolo. Siamo in territorio Robert Johnson o ve lo siete inventato?

Rolf, il regista e autore dello script, se l’è inventato. C’è un intero spezzone del film che è stato tagliato. E in un certo qual modo mi dispiace che lo abbiano tagliato. Era la porzione italiana del film.

Chet Baker era famoso in Italia. Aveva vissuto qui, e parlava molto bene l’italiano.

Parlava certamente l’italiano molto bene. Ha trascorso circa dieci mesi in prigione a Roma. C’era una scena nel film con questo strano personaggio che parla italiano e appare in vari altri momenti che, come questo, non sono entrati nella versione finale.  Però lo si vede quando viene mostrato un filmato di Chet nella scena di My Foolish Heart. Nel pubblico s’intravede un uomo che indossa un cappello di feltro e un grande cappotto scuro. E lo si vede anche in un flashback che va a ritroso al 1957, al concerto di Parigi, e si può vedere quello stesso signore tra il pubblico. Non invecchia mai, ha sempre il medesimo aspetto.

Dev’essere per forza il diavolo.

Sì, è Lucifero. C’è stata un’altra scena dello script che abbiamo girato con questo attore fantastico. Chet è sceso dal palco del locale dove ha appena cantato My Foolish Heart. È seduto al bar e sta firmando gli LP. Un istante dopo gli viene messa davanti agli occhi la copertina dell’LP Live In Paris. Lui la guarda, poi guarda su, c’è di nuovo quel tizio e gli parla in italiano. Così io ho fatto un’intera scena con il diavolo in cui Chet parla in italiano. Ho dovuto imparare tutte le battute in italiano.

Wow. Quanto mi dispiace che l’abbiano tagliata.

Dispiace anche a me, avevo fatto un gran bel lavoro lì. Era divertente perché il diavolo era un attore grande in tutti i sensi, aveva un gran cappotto e si accosta parlando proprio in italiano.

Il diavolo che parla italiano… Straordinario… Non avrebbero dovuto tagliarlo.

Non avrebbero dovuto…Lui gli dice “puoi rimanere quanto vuoi a patto che suoni sempre con il cuore”. ma mentre sta sussurrando questo all’orecchio di Chet lo afferra per le palle, e gliele stringe.

Questo è il tipico modo di fare italiano; è così che facciamo abitualmente…

Sì, gli sta spremendo le palle mentre gli dice “fai quello che vuoi, prendi tutte le droghe che ti va a patto che suoni sempre con il cuore”. Ma l’hanno tagliato, e mi è piuttosto dispiaciuto non vedere quella scena. Se l’avessero fatto più felliniano sarebbe stato meglio, secondo me. Il film meritava un’atmosfera più fantastica.

Ti andrebbe di parlare del rapporto creativo tra te e tuo fratello Joe?

L’ultimo album dei Walls, Stop The Lights, risale al 2012. Noi lavoriamo a lungo sui nostri album, siamo perfezionisti, il che non è sempre una buona cosa. Abbiamo il nostro studio di registrazione, ci viene più facile lavorare in uno spazio che è nostro, perché siamo lenti. Non potremmo permetterci di affittare ogni volta uno studio di registrazione. Il primo album Hi-Lo fu terminato intorno al 1998 e uscì nel 2000. Stavamo sperimentando molto con i campionatori, i loop di batteria. Ascoltavamo molto la musica di Beck a quel tempo. Con New Dawn Breaking, uscito nel 2005, volevamo invece un album di puro rock senza tante stranezze. Lì abbiamo scelto di essere una live band in uno studio. L’abbiamo registrato in Francia, interamente con attrezzatura vintage su nastro analogico. Poi abbiamo pubblicato Stop The Lights. Ci abbiamo messo anni a completarlo perché nel frattempo avevamo riformato gli Stunning, e  iniziato a ripubblicare i loro album con la nostra etichetta discografica. Ci siamo ritrovati ad essere estremamente impegnati con la nostra vecchia band perché gli Stunning riscontrano un successo di gran lunga superiore a quello di The Walls.

Perché avete smantellato un progetto di tale successo?

Gli Stunning si sono sciolti nel 1994 dopo essersi formati nel 1987. Abbiamo deciso di farla finita perché dopo tre album non riuscivamo a ottenere un contratto discografico internazionale. Ci frustrava il fatto che la nostra musica fosse conosciuta soltanto in Irlanda e avevamo speso tutti i soldi in tour nel Regno Unito. Siamo andati parecchie volte in America per cercare un’etichetta che ci ingaggiasse. Alla fine  è subentrata la disillusione. Non volevamo fare tour senza fine in Irlanda o a Londra o soltanto in posti dove ci fosse un pubblico irlandese. Non siamo conosciuti fuori dall’Irlanda. È un peccato, perché sono sicuro che la gente in Italia gradirebbe la nostra musica. Gli Stunning hanno ancora un seguito enorme. I nostri concerti li facciamo ancora con gli Stunning e non più come The Walls.

Nella vostra carriera avete aperto i concerti degli U2 e niente di meno che Bob Dylan. Come ci si sente a fare da opening act per Mr Dylan?

La prima volta che abbiamo aperto un concerto di Dylan eravamo ancora The Stunning. All’agente londinese di Dylan era piaciuta la nostra musica e ci ha offerto lo slot di apertura nel 1992 per le cinque serate di Dylan all’Hammersmith Odeon. Ricordo che quando Dylan arrivava sgombravano tutto lo spazio dietro le quinte, fino ai corridoi, lui non voleva vedere né incontrare nessuno nei dintorni. Anni dopo ci è capitato di aprire una sua serata a Galway. La limousine lo portava fino ai gradini che conducono sul palco. C’erano un sacco di ragazzini alle transenne. Lui si avvicinò e si mise a parlare con loro per una decina di minuti ignorando tutto il pubblico adulto. Sono un grande fan di Dylan, lo sono fin dall’adolescenza. Ho imparato a suonare la chitarra cercando di emulare lui e i Beatles. Dylan è a un livello superiore. È incredibile, mi incute soggezione. Murder Most Foul è incredibile per il modo in cui le parole sgorgano dalla sua vena in un flusso di coscienza.

Qualche giorno fa mi sono detto “sto per intervistare Steve, devo prepararmi e vedere cosa sta facendo adesso”. Quindi mi sono messo ad ascoltare una canzone che ha quasi un suono reggae. Ricordo un verso riguardante le faccine e gli emoticon che mettiamo nelle chat.

Sì, il verso dice “a volte se mi sento un po’ solo / non c’è un emoji per questo ruolo”. La canzone s’intitola Rise With The Sun.

Mi ha fatto sorridere. Cos’è, hai avuto un momento di ispirazione?

È successo che un musicista che vive nell’ovest dell’Irlanda mi ha contattato durante il primo lockdown e mi ha detto “ehi, ti va di fare qualche tipo di collaborazione”. Mi ha mandato tre o quattro brani suoi. Ho scelto quello. Ha un’atmosfera bizzarra che mi ha fatto pensare “ci tiro fuori qualcosa”. Ho cercato di scrivere una canzone positiva, allegra, che non menzionasse il Covid.

Quello che ci vuole, in momenti come questi.

È stata una collaborazione. Non sarei mai riuscito a scrivere quel tipo di musica. Non saprei nemmeno dove cominciare se dovessi scrivere una canzone reggae. Un beat di quel tipo per me è qualcosa di inavvicinabile, le lascio a chi le sa fare questo tipo di cose. Ma è stato molto divertente. In fin dei conti mi ha permesso di scrivere. Sto scrivendo poco. La recitazione ha senz’altro spostato la mia attenzione. Ho trascorso tutta la scorsa estate in Spagna, dove ho fatto una serie per Amazon Prime e la BBC inglese. Uscirà il prossimo autunno. È un western suddiviso in sei parti con Emily Blunt, intitolato The English dove recito la parte di un cowboy. La trama è scritta davvero bene ed è ambientata nel tardo diciannovesimo secolo quando si stanno spartendo l’America. Ho trascorso due mesi e mezzo nelle colline a nord di Madrid, nella calura. Quella zona assomiglia al Montana o al Wyoming. Dato che c’erano momenti di tempo libero pensavo che avrei potuto scrivere e dedicarmi alla musica. Ma ormai trovo molto difficile passare da una modalità all’altra. Pensavo che sarebbe stato più facile, ma non è stato così. Quando sei concentrato sulla recitazione la parte musicale del tuo cervello tende ad arrugginirsi. La scrittura va esercitata, penso che le cose stiano così.

Alla fine della nostra conversazione Steve ed io scopriamo di avere in comune una grande passione per la serie Twin Peaks di David Lynch. Chissà che questo non sia il punto d’inizio per una prossima intervista, un giorno o l’altro.

La versione in inglese dell’intervista si può leggere qui.

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Trevigiano di nascita e romano di adozione. Nel maggio 2016 ha pubblicato “Ballando con Mr D.” sulla figura di Bob Dylan, nel maggio 2018 “Da Omero al Rock”, e nel novembre 2019 “Twinology. Letteratura e rock nei misteri di Twin Peaks”.

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