zen circus articolo

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I numeri prima di tutto: 18 anni di carriera, 9 album, 1000 – e forse più – concerti. Con la maggiore età, gli Zen Circus si confermano come una delle più solide realtà del panorama rock italiano. L’ultimo album è La Terza Guerra Mondiale, titolo ancora una volta provocatorio (dopo Andate Tutti Affanculo e Nati Per Subire) com’è nell’indole del trio pisano. Disco che ribadisce ancora una volta le qualità di una band che ha saputo rendersi padrona di un linguaggio espressivo all’apparenza semplice, ma in realtà difficile da dominare: un rock dal taglio internazionale, ma rigorosamente cantato in italiano. Facile? Tutt’altro, basta ascoltare tanti tentativi malriusciti.

Qui il suono si fa ancora più solido che in passato, molto indie-rock anni Novanta, molto più figlio dei Pixies che dei Violent Femmes, per citare due tra le band alle quali gli Zen non hanno mai nascosto di voler assomigliare. Su queste sonorità, il vero marchio di fabbrica restano le liriche di (Andrea) Appino. Liriche caustiche, ironiche, coinvolgenti, capaci di parlare a più di una generazione e, in una parola, intelligenti, con la capacità di schivare la retorica pure affrontando argomenti impegnativi – guerra, alienazione, razzismo – e la qualità di farsi canticchiare fin dal primo ascolto.

Di questo e altro abbiamo parlato proprio con Appino nell’intervista che segue.

zen circus terza guerra mondiale

Appino racconta i suoi 18 anni con gli Zen Circus

Anzi tutto, bravi. Siete riusciti a fare ancora una volta un bel disco, e non è una cosa facile dopo tanti anni. Già che ci siamo, com’è che ce l’avete fatta a non mollare?
Suono negli Zen che avevo appena 16 anni. Ufo è arrivato dopo, nel 2000, Karim nel 2003. Ne abbiamo viste di cotte e di crude, ma la realtà è che più di ogni altra cosa ci piace suonare, da sempre. Poi credo che ci abbia aiutato il fatto che non abbiamo mai voluto diventare famosi, piuttosto leggendari. Cavolate a parte, il trucco è guardare sempre avanti con determinazione, avere una progettualità vivace, lasciare sempre a briglie sciolte la creatività, essere curiosi, voraci e ovviamente sopportarsi il quanto più affettuosamente possibile. Insomma pare che non vi libererete facilmente di noi.

Hai mai pensato: sarebbe stato meglio un bel posticino in Comune…
Decisi fermamente che volevo fare della musica un lavoro a 13/14 anni. In realtà ho fatto ogni sorta di mestiere per mantenermi (e quando dico “ogni sorta”, dico sul serio), ma solo nell’ottica di portare avanti la band. Spesso mi licenziavo per andare in tour e poi dovevo trovare un altro lavoro al ritorno. Ma ormai sono nove anni che la musica è un lavoro a tempo pieno e non credo potrei fare mai altro nella vita. Le sole alternative prese in considerazione negli anni sono state, in ordine sparso: il giornalista, lo scrittore, il fumettista. Creatività sempre, senza morirei.

Musica che avvicina le generazioni

Fulvio, che ha 45 anni, mi ha confessato la sua fissa di stampo adolescenziale per il vostro nuovo album, Neppure Enrico, che ne ha 10, riesce a smettere di ascoltarlo. Vi rendete conto di questa capacità di parlare un po’ a tutti, come quei giochi che vanno bene “da 0 a 99 anni”?
La musica unisce le generazioni, è uno dei motivi per cui la amo. Abbiamo figli di fan che sono letteralmente nati in mezzo alla musica del circo zen, alcuni ci hanno sentito dal vivo da dentro la pancia della mamma e adesso vengono da soli con gli amici. Tutto questo è affascinante e molto bello, se non fosse che va di pari passo con l’avanzamento di una certa anzianità, cosa che accogliamo di buon grado. Come ci ricordano i mai abbastanza celebrati Nomeansno: “Old is the new young”

Le sonorità del disco sono quanto di più “indie-rock anni Novanta” abbiate mai fatto, mettendo da parte il folk. Motivi particolari?
Nessuna premeditazione, semplicemente in sala prove le canzoni sono venute così e abbiamo lasciato che facessero il loro corso naturale.

Ma il vero punto di forza è il buon equilibro tra musica dal piglio internazionale e testi in italiano, cosa difficilissima e che a pochi riesce in maniera credibile.
Era la nostra missione fin dalla primissima canzone in italiano: mescolare la musica americana con cui siamo cresciuti con i testi legati di un certo tipo di cantautorato anni ’70, il tutto frullato dall’ironia caustica tipica della nostra terra. Ci dicono che ci siamo riusciti, ne siamo assolutamente felici.

zen circus andate tutti affanculo

Di cosa parliamo quando parliamo di rivoluzione?

Una parola che ripeti nel disco è “rivoluzione”, ma con tanta, tanta amarezza. Perché pensi che la gente non abbia ancora trovato la forza di incazzarsi VERAMENTE?
E di cosa si dovrebbe arrabbiare? Abbiamo tutto quello che vogliamo, no? La parola rivoluzione nel disco appare due volte ed entrambe le volte è associata alla solitudine. Stiamo imparando a rivoluzionare le nostre abitudini in solitudine o all’interno della nostra stretta cerchia di persone care, che siano la famiglia o agli amici. Cambiamo le nostre abitudini certo, ma di cambiare il mondo che ci circonda veramente non se ne parla più da un bel po’ di tempo. Perché per farlo bisogna fidarsi degli altri, abbracciare la collettività come valore superiore alla famiglia, scontrarsi a viso aperto con chi la pensa diversamente, lottare per le proprie idee, mettersi in testa di perdere qualche privilegio che ormai ci sembra inalienabile.

Senza possibilità di fraintendimenti

 Zingara racconta della capacità della gente di concentrarsi sul nemico sbagliato (dico bene?). Ho letto che l’hai scritta mettendo assieme frasi razziste trovate su web. Se però uno non lo sa e non vi conosce, magari scatta pure il fraintendimento!
Se scatta, che scatti. Non è un problema nostro, ma di chi fraintende, al quale si può dare tranquillamente il patentino di imbecille doc. Gli Zen non fanno musica consolatoria. I nostri testi non sentono la necessità di essere comprensibili e intellegibili ai più. Nelle nostre parole devi volerci entrare, non trovi risposte, non trovi stili di vita da seguire, devi rispondere tu, sei tu il protagonista.

Non siamo una band che ti dice come vivere la tua vita, semplicemente ti facciamo una fotografia e te le mettiamo davanti. Se ti fai paura è l’ora di reagire, se ti va bene così allora porgo le mie condoglianze. Questo ovviamente senza ergersi a esseri superiori. Facciamo schifo anche noi e siamo i primi a cantarlo.

Ad ogni modo è uno degli esempi della tua capacità di affrontare argomenti spinosi da una prospettiva che ti consente di non essere retorico.
Da scrittore ti dico che essere retorico è sempre stato il mio incubo più grande.

Zen Circus tra Pisa e il mondo

L’immagine della fine del mondo affrontata in bermuda e ciabatte mi piace un sacco, non è che ormai sei diventato definitivamente livornese?
Non lo sarò mai, per quanto adori la città e la sua gente. Mi sento un cittadino del mondo che è molto felice di essere nato in Toscana, tutto lì. Mi faceva ridere l’idea (volutamente irrispettosa) di cominciare l’album ricordando che il riscaldamento globale in fondo ha anche dei vantaggi a breve termine.

E alla fine parliamo di Pisa Merda. Ce l’hai con Pisa, con la provincia in genere o con te stesso (in quanto pisano, ovvio)?
Parla del rapporto di amore-odio con tutte e tre le entità che hai elencato. Pisa è soltanto una scusa ed una provocazione: partire dalla frase che più spesso mi sono sentito dire in giro per l’Italia per raccontare la sterminata provincia tricolore, entità materna ed ammaliatrice che ha dato i natali a Cesare Pavese, così come ci ha regalato i sassi dal cavalcavia.

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Avvocato e giornalista, marito devoto e padre esemplare, scrive di musica e fumetti sulle pagine de Il Tirreno e collabora/ha collaborato con numerose altre testate cartacee e non, oltre a non curare più un proprio blog. Fa parte della giuria del Premio Ciampi.

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