Daniel Johnston

Un ricordo di Daniel Johnston a due anni dalla scomparsa.

Daniel Johnston

Il grande, malandato cuore di Daniel Johnston (Sacramento, 1961-Waller, 2019) ha cessato di battere due anni fa, esattamente il 10 settembre 2019 (l’11 secondo alcune fonti). Ricordare e scrivere di Daniel Johnston impone attenzione, delicatezza, tatto. Di più, impone, per quanto mi riguarda, quel circospetto e silenzioso rispetto che si prova camminando in punta di piedi in una camera ardente.

Daniel Johnston, musicista, pittore, fumettista, era quel che si può definire un genio. Capace di realizzare d’incanto una piena identità fra intuizione ed espressione, a prescindere dalla debolezza degli strumenti e dei mezzi tecnici a disposizione, la sua preistoria, personale e artistica, si condensa nei pochi versi disarmati – ma non ingenui, ché ingenuo Johnston non fu mai – di Grievances: “You’re a lovely lady but you don’twanna be/ No girl of mine/ […] / And I saw you at the funeral/You were standing there like a temple/ I said ‘Hi! How are you? Hello!’/ And I pulled up a casket and crawled in/”. (*)

Daniel e Laurie

Il giovane Daniel è folgorato da Laurie, ma Laurie (Allen, al secolo) non è corretto dire che non ricambi: proprio non si accorge di lui, che le siede qualche banco dietro nella classe d’arte. Si fidanzerà, finirà per sposare un altro e farà la sua vita. Nulla di strano o di nuovo, se non che il precario equilibrio di Daniel precipita irrimediabilmente: la bara in cui si troverà a strisciare sarà quella di una sindrome maniaco-depressiva che farà della sua vita una via crucis costellata di ricadute e ricoveri.

Ma è anche così che Daniel Johnston inizia a comporre canzoni. In garage, con un organo elettrico e un registratore pagato 59 dollari. Non incide, non esordisce, semplicemente registra musicassette per poi regalarle ai passanti, ilare e disperato menestrello delle proprie pene d’amore perduto e della propria inadattabilità al mondo.

 

Del 1981 sono le sconcertanti prove, rigorosamente e involontariamente lo-fi, raccolte sotto il titolo di Songs Of Pain. Mille altre canzoni scriverà Johnston e chissà quante altre musicassette avrà inciso – ascoltate, se non lo avete già fatto, almeno More Songs Of Pain, Yip/Jump Music e Hi, how are you, tutte del 1983 e Retired Boxer del 1984, passaggi fondamentali nel definire – quasi sempre con il solo supporto di organo elettrico e chitarra – lo stralunato ‘canone’ johnstoniano.

Mille volte Daniel registrerà e ricanterà quelle canzoni, variando senza sosta il proprio dolore, ma anche il proprio disperato amore per la vita; mille e mille riprove, incise nella carne e nel sangue, che se cantando il dolore si disacerba, la sofferenza può comunque cristallizzarsi in una melodia infinita, fatta di innumerevoli, minime sfumature, anche se Laura è un’anonima compagna classe.

I fan celebri di Daniel Johnston

Ad Austin, attorno a Daniel Johnston – che nel frattempo aveva abbandonato la scuola per vendere pop corn in un luna park itinerante – cresce pian piano un tenace culto iniziatico. Le stralunate, splendide prime raccolte si susseguono, Daniel si esibisce dal vivo, come sa, come può e quando può, e con l’uscita della raccolta 1990, distribuita dalla Shimmy Disc, il suo nome arriva alle orecchie dei grandi.

Lou Reed prova a incidere con lui, e non ci riesce. Kurt Cobain gli rende pubblico omaggio con la t-shirt che riproduce l’artwork di Hi, how are you, Bowie (che non sbaglia mai) gli dedica la canzone Wood Jackson (2002) definendo poi lo splendido Fear Yourself (prodotto da Mark Linkous) il più bel disco del 2003; i Sonic Youth e i Butthole Surfers si dichiarano suoi ammiratori.

kurt cobain daniel johnston

 

Quel geniaccio ammaccato di Jad Fair (pittore underground e già fondatore dei proteiformi e mai pienamente compresi Half Japanese), con il quale il sottoscritto avrebbe paura anche a giocare a dama, incide con lui ben due dischi, It’s Spooky (1989) e The Lucky Sperms: Somewhat Humorous (2001), che pur dando sfogo ad una tendenza rumoristica niente affatto estranea al mondo poetico di Johnston (e che potremmo definire il suo ‘secondo modo’), si risolvono, a parere di chi scrive, in un’operazione di vampirismo musicale in cui il sangue che scorre è quello del più fragile Daniel.

I contratti discografici

Nei primi anni Novanta Daniel – spirito religioso e devoto fino all’ossessione maniacale del demonio e del male – rifiuta un contratto con la Elektra, perché i Metallica, nome di punta della scuderia, gli appaiono come pericolosi figli di Satana pronti ad ucciderlo; firma nel 1996 per la Atlantic, grazie a Paul Leary dei Butthole Surfers, ma le disastrose vendite di Fun (bellissimo, per inciso) fanno naufragare il contratto.

La storia di attrazione e repulsione verso il mondo discografico di questo malandato e sghembo petrarchista taxano, e del suo storto canzoniere, meriterebbe di essere mille volte narrata. Il documentario di Jeff Feuerzeig The Devil And Daniel Johnston (2005) lo fa in maniera toccante, con il pudore dovuto a chi, senza alcuna attitude, ha intinto per tutta la vita il proprio inchiostro nelle lacrime della sofferenza psichica, avendo in dono solo la capacità di tirar fuori dal proprio matto cappello alcune delle idee melodiche più belle che si siano udite dal tempo di Lennon & McCartney. Nel documentario c’è anche lei, Laurie, ben 26 anni dopo il fatale incontro, commossa e inconsapevole fino a quel momento di una vita e di mille canzoni dedicatele.

Daniel ha continuato a incidere fino alla fine, quando un attacco cardiaco lo ha strappato alla vita. Oggi riposa, e lo speriamo finalmente sereno, sorridente, ma non domo. E a noi manca. Tanto.

(*) Altro testo emblematico è quello di Never Relaxed che Tomtomrock tradusse pochi giorni dopo la scomparsa di Johnston e che potete leggere qui.

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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