Hallelujah: Leonard Cohen, a Journey, a Song
Quali sono le affinità e le divergenze tra Leonard Cohen e Bob Dylan? Hallelujah: Leonard Cohen, a Journey, a Song, tra le altre cose, riesce a rispondere in maniera fulminante anche a questa domanda. Sono gli anni di Infidels quando Bob Dylan decide di cantare un pezzo di Leonard Cohen all’epoca scarsamente riconosciuto, Hallelujah. Cohen gli è molto grato, a Parigi ha l’occasione di incontrare Dylan che elogia apertamente la canzone: “È una canzone straordinaria; quanto ti ci è voluto per scriverla?” “Alla fine ci ho messo sette anni”. La replica di Dylan è fulminante “Per I and I ci ho impiegato 15 minuti e l’ho scritta mentre ero in taxi”.
Il film, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, non è esattamente la storia di questi sette anni ma è di sicuro un campo lungo sul rapporto che Leonard Cohen ha sempre sperimentato sulla sua pelle tra vita reale, tensione spirituale e frustrazione quotidiana. Una pellicola illuminante, straziante nella bellezza che il poeta canadese riesce a trasmettere sempre, in qualsiasi inquadratura, in qualsiasi concerto e anche nei momenti più bui di un fallimento – quello del disco Various Positions che il direttore della casa discografica dell’epoca si rifiutò persino di distribuire.
Piuttosto che una resa, quello fu il momento in cui Cohen venne sorretto da tutti gli altri. Hallelujah per molti è una canzone di Jeff Buckley. O addirittura della colonna sonora di Shrek o, ancora, un banco di prova importante per i talent show dell’ultimo decennio. Pensare che un brano del genere, in bilico tra sesso e castità (come diceva un altro Maestro), eternamente incompiuto e continuamente in divenire per il suo autore, sia più celebre di chi lo ha scritto fa tremare i polsi. Perché chi lo ha scritto si chiama Leonard Cohen, sta alle canzoni come Miles Davis sta alla sua tromba, ovvero le ha sempre utilizzate come un territorio di un’ampiezza poetica che forse neppure Bob Dylan ha voluto concepire.
L’idea filmica di Hallelujah: Leonard Cohen, a Journey, a Song
La pellicola è un sogno realizzato dai due registi Daniel Geller e Dayna Goldfine. Attraverso materiali d’archivio e un filo narrativo saldo affronta questa prospettiva, abbracciando non solo una canzone ma una vita intera. L’immagine di Leonard Cohen è la vera protagonista delle parti migliori: attraversa spazio, tempo, angosce e splendori personali come se fosse intagliata in una pietra che il tempo rende sempre più lucente. Il Cohen che canta Hallelujah nell’ultima data dell’ultimo suo tour ha raggiunto l’ironia, la bellezza, l’eleganza e tutto quello che si può chiedere a un artista in cui il senso di ricerca spirituale e materiale proprio in questa canzone diventa arrivo e partenza. La partenza è incerta: il pezzo ha bisogno di sotterrarsi, di essere dimenticato per poi emergere come qualcosa di universale, di collettivo: il film riesce nella difficilissima sfida di rimanere sospeso fra chi è (e come scrive) Leonard Cohen e che cosa nei decenni è diventata Hallelujah.
Materiali d’archivio fra ironia e commozione
Non mancano testimonianze, aneddoti anche spassosi (il rapporto impossibile con Phil Spector, l’immancabile John Hammond che recluta Cohen nella scuderia Columbia affermando: “non sapeva leggere la musica, ma sapeva leggere il mondo”, lo zen e una depressione mai ostentata e quasi elegante), filmati che agli appassionati spezzeranno il cuore per la loro forza espressiva. Quello che comunque rimane, dopo oltre due ore di visione, è non solo una testimonianza della poesia assoluta di Cohen, ma soprattutto la storia di come un brano “qualsiasi” possa diventare quasi una persona che si racconta in tutti i suoi cambiamenti, nel corso di una vita che le auguriamo eterna.
Due parole su Becoming Led Zeppelin
Nota a margine su un altro film presentato a Venezia: tanto ci è apparso riuscito Hallelujah: Leonard Cohen, a Journey, a Song quanto Becoming Led Zeppelin, diretto da Bernard MacMahon, orchestrato da Jimmy Page e coacervo di brani ed esibizioni “inedite”, risulta, in maniera lampante, una pura operazione di marketing senza anima e, soprattutto, senza tuffi al cuore.