Burt Bacharach

Perché è impossibile dimenticare Burt Bacharach (Kansas City, 12 maggio 1928 – Los Angeles, 8 febbraio 2023).

Burt Bacharach non è morto l’8 febbraio 2023. Burt Bacharach, semplicemente, non è mai esistito. Perché questo pianista ebreo, costretto a curvare  le spalle sotto il peso dei classici, ma pazzamente innamorato del jazz della 52sima strada, ha risolto (e dissolto) la propria vocazione a trasfigurare i movimenti soul di una tastiera interiore infinita in gioielli pop traslucidi e liberi dal tempo, scegliendo di esistere soltanto attraverso le canzoni.

E le canzoni di Burt Bacharach, dono riservato ai pochi e agli eletti, esistono da sempre. Non hanno data di nascita, non conoscono anagrafe, sono i figli (solo in apparenza) spensierati che un padre gaudente e libertino ha disperso per il mondo, regalato a chi le canta e a chi, ascoltandole, prima ancora che ascoltarle, le riconosce.

Burt Bacharach, compositore, arrangiatore, produttore, sulla cui testa sono piovute gragnuole di Oscar e Grammy, ha scelto di non essere una voce, ma di sfuggire alla propria esperienza terrena grazie alle voci degli altri. Oltre mille quelle che hanno inciso, reinciso e centomila volte cantano pezzi memorabili.

I grandi classici

E a chi appartengono dunque Raindrops Keep Falling On My Head, Magic Moments, Walk On By?  Chi può vantare davvero la proprietà di I Say A Little Prayer, What The World Needs Now Is Love o I’ll Never Fall In Love Again? Tutti. E nessuno. Come è destino delle gocce cadute sulla testa da non si sa più quale cielo e dei petali volati lontanissimi da uno stelo che nessuno ricorda.

In questa lieve e profonda fecondazione della memoria collettiva, per chi scrive, sta l’essenza dell’opera infinta, multiforme, inesauribile di Burt Bacharach. Ma ci si potrebbe sbagliare. E Burt potrebbe, contrariamente a quel che qui si è sostenuto sinora, essere esistito veramente. È una possibilità. E allora cogliamola, e ricordiamolo attraverso due lavori distanti più di trent’anni l’uno dall’altro, ma legati da fili non meno resistenti perché sottili.

Dionne Warwick, Burt Bacharach e Hal David

Il primo, Anyone Who Had A Heart (1964) di Dionne Warwick, cantante che Bacharach, insieme al fido e sempre taciuto paroliere Hal David, scoprì o, pressoché, inventò, costituendo una inaudita carriera a tre protrattasi per oltre dieci, luminosi anni, fino a quel 1973, anno dell’apocalisse e del disastro commerciale e artistico del remake di Lost Horizons, che li separò, lasciando ciascuno un po’ più solo e più triste per la sua strada.

Dionne e Burt Bacharach

Sette su dodici sono le canzoni che portano la doppia firma Bacharach-David (produttori del disco), perle soul di una tale bellezza che ancor oggi fa ammutolire. A partire proprio da Anyone Who Had A Heart, della quale si può dire soltanto che se una qualche divinità esistesse e avesse pietà del dolore degli umani, cosi dovrebbe parlare e cantare. E lo farebbe con la voce di Dionne Warwick. Ma non valgono certo meno capolavori del calibro di Don’t Make Me Over, This Empty Place, Any Old Time Of Day o I Cry Alone: i cuori che si spezzano non fanno rumore nell’universo felpato di Bacharach. Producono però un lieve, intenso tintinnare di cristalli finissimi, che porta l’eco di un terremoto così lontano che sembra provenire dal centro della terra.

L’indimenticabile collaborazione con Elvis Costello

Il secondo, Painted From Memory (1998), frutto della collaborazione con Elvis Costello. Dodici canzoni memorabili, nelle quali la contaminazione fra i mondi diversamente soul di Bacharach e Costello è così compenetrata e profonda che ad ogni istante pare di udire l’uno e poi l’altro, e poi ancora il primo e poi entrambi insieme. Superba, su tutte, Toledo con le sue trombe, ma This House Is Empty Now, I Still Have That Other Girl e Tears At The Birthday Party sono solo le punte più acuminate di un diadema che brilla di  bellezza scura, schiva e duratura.

Elvis Costello Burt Bacharach

Burt Bacharach, l’imprendibile

Soul nero, il primo, vibrato sulle corde vocali di Dionne Warwick; soul bianco, il secondo, scoccato dall’arco vocale di Costello. Nascosto, come sempre, disseminato in musica e arrangiamenti, imprendibile, Burt Bacharach, che è quanto dire l’uno e l’altro.

È ben vero, merita venerazione la “cattiva musica”, perché si è fusa ed impastata ai nostri sogni e alle nostre lacrime, nella sua infinita e inascoltata ripetizione, ben più di quella buona, di quei classici che il giovane Burt amava tradire con i jazzisti neri. E se così è, ci siamo davvero sbagliati: Burt Bacharach, che di musica cattiva ne ha scritta di bellissima, è esistito davvero, ed è lì che si trova adesso: sospeso e diffuso in un’opera sterminata, avviata ormai tanti anni fa lungo le strade del mondo e che può, in ultimo, fare a meno di lui, per sopravvivergli sotto il cielo grigio della fama terrena, e lasciarlo finalmente riposare.

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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