Marquee Moon

Nell’anniversario di Marquee Moon dei Television, un ricordo del disco e di Tom Verlaine (Morristown, 13 dicembre 1949 – New York, 28 gennaio 2023).

Lo scorso 28 gennaio l’urlo di un migliaio di uccellini azzurri si è ammutolito di colpo e Thomas Miller ha compiuto (o iniziato, poco importa) il suo ultimo viaggio. Tom Verlaine, che per il mondo della musica si battezzò come il poeta delle feste galanti e dei versi morbidi, dolorosi e sapienti, è entrato con stile, per l’ultima volta, in Cadillac, nel cimitero di notte. E a questo giro di ruota, per restarci (così pare, almeno).

In un lontano oggi di quarantasei anni fa, con i suoi Television, Tom regalò al mondo Marquee Moon, disco con il quale il punk si fece adulto, cambiando pelle come un serpente, senza conoscersi più, o senza più riconoscersi, rompendo lo specchio della propria infanzia guerriera. Maturare è tutto (o quasi, su). E fu di colpo così anche per quella fanfara colorata e stracciona che aveva infiammato per due anni memorabili entrambe le sponde dell’Oceano e poi l’Europa tutta. Dopo Marquee Moon niente sarebbe più stato identico a prima. L’incendio era finito ed iniziava un tempo nuovo.

La novità dei Television

Piaccia o non piaccia agli entusiasti, non esiste rottura con il passato, anche la più drastica, che non lo presupponga, lo conservi e lo rielabori. Cosi va la vita. La distruzione, nell’arte come nel resto, è assalto volontario a quello che è stato. E perché l’opera riesca, il passato va trasformato in reliquia: solo così lo si può bruciare. Perché si inabissi quel che deve o si salvi quel che può. Perché le rivoluzioni non si fanno sui sussidiari. E perché, a bamboleggiare incoscientemente inconsapevoli, ci si risveglia, simpatici naif dal tratto ripetitivo ed in breve noioso, in un giardino di spine. Ha avuto un bel lottare tutta la vita Tom Verlaine per non farsi una carriera professionale. Nacque adulto, scrittore e musicista. E tale è morto.

8 febbraio 1977: l’esordio è una pietra miliare

Quando apparve l’8 febbraio 1977, Marquee Moon fu una signorile pedata assestata nel basso ventre di paradigmi musicali le cui radici si erano, più che confuse o perdute, indolenzite al sole tiepidissimo di un eclettismo da tempi di crisi, lasciando che finissima polvere coprisse le rotaie d’acciaio cromato. Tom Verlaine e compagni gli strumenti in mano li sapevano tenere eccome, e non erano i soli, né da soli, in quella New York del 1977. Nessuna enfasi concessa all’improvvisazione (che non fosse formula studiata e colta): lo spirito sonoro del punk sopravvive in Marquee Moon spennato e frollato già in quel 1977 che del punk pareva segnare l’apogeo, mentre volgeva già ad un immediato declino. Quello stesso spirito, decantato e affinato in alambicchi sonori sapienti, eppure mai paghi della loro sapienza, esplode in Marquee Moon. Lo fa sotto forma di costruzione di un mondo musicale inaudito, memore della stratificazione del tempo e dei suoni che lo esprimono, e della necessità di trovare maestri antichi lungo la strada del rinnovamento. Consapevole, soprattutto, che la deriva gigionesca ed enfatica di quegli anni musicali si sarebbe combattuta meglio (e forse vinta) a colpi di stile piuttosto che di rutti (nei confronti dei quali non si nutre, ben inteso, alcuna prevenzione, né in musica né fuori). Sarebbe stata una lezione. Per quanti c’erano allora e per tanti che sarebbero venuti poi.

Legami, influenze

In Marquee Moon gli echi sonori e visivi dei Velvet Undergound più schiettamente metropolitani sono venati e screziati, anche nei momenti della loro maggior tensione emotiva, da una nostalgia di morbidezza, di riposo, di quiete sfatta. Marquee Moon si risolve nella ansiosa conciliazione di questi due opposti impossibili, splendido intreccio di fili d’acciaio colorati con labili e pure indelebili pastelli. Non stupirà che questi fili si intessano di reminiscenze ritmiche e armoniche sopravvissute all’età del jazz, che paiono segnali in alfabeto morse lanciati da un universo di suoni lontano e pure così prossimo, conficcato nel cuore di una Big Apple che se ne è andata definitivamente all’altro mondo insieme a Tom Verlaine e tanti saluti.

Verlaine

I Velvet Underground a colazione con John Coltrane dunque? Sì e no. I binari lungo cui corre Marquee Moon son ben quelli, ma nelle vene delicate e potenti di quelle memorabili otto canzoni scorre, sull’onda dello stridulo eppure mai così cantabile suono di chitarra elettrica di Verlaine, un compendio sonoro del tempo, anch’esso lontano, dei fiori al potere. Il miracolo risiede nel fatto che saremmo in grado per certo di dire che ci sia; di afferrarlo, se non in spirito, mai.

Tom Verlaine dopo Marquee Moon

Tom Verlaine oltre a Marquee Moon, ad Adventure, secondo e appena meno bello capitolo della saga, e al più tardo Television, epilogo di gran classe, lascia un pugno di belle e raffinate canzoni da solista, delle quali Kingdom Come, che tanto piacque a Bowie che la ricantò, non è che l’affioramento di un iceberg smilzo, gentile e discreto, ma che di certo tornerà mille volte a galla, lontano da dove si ha l’illusione di poterlo avvistare.  E si scoprirà che è fatto di granito e non di ghiaccio.

Tom Verlaine lascia però anche una ineguagliata lezione di stile, che canta ancora più dei mille uccellini straziati di cui vibrava la sua splendida chitarra. Misura, eleganza, sintesi e contaminazione, certo, che fanno di Marquee Moon un luogo di innovazione ed equilibrio con pochi paragoni. Ma ancor più, obliqua evocazione di un mondo morto, congiunta alla capacità di farlo vivere a colpi di ellissi sonore e verbali, per poi riporlo con cura in quel cimitero inquieto e mal frequentato in cui le Cadillac entrano ed escono nella notte, nemmeno fosse un festoso ed ignaro drive-in.

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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