Nights In White Satin dei Moody Blues diventa Un Po’ D’Amore di Dalida e Ho Difeso Il Mio Amore dei Nomadi.
Tomtomrock dà il via a una rubrica dedicata alle traduzioni italiane di canzoni straniere. Andremo dagli anni ’60 a tempi sorprendentemente recenti, dai Moody Blues-Nomadi ai Radiohead-Vasco Rossi, passando per David McWilliams-Caterina Caselli e R.E.M.-Ligabue. Ci saranno cose goffe oppure pretenziose, ma anche guizzi di genialità e persino qualche raro esempio di Italia che sconfigge il resto del mondo.
Per la forza delle cifre (centinaia e centinaia di brani tradotti), partiamo dall’epoca d’oro del coverismo italiano, gli anni ’60. Vituperate per default (ma sotto sotto anche amate), quelle versioni italiane dei successi esteri sono da tempo considerate un perfetto esempio di provincialismo culturale. Non sapendo produrre alcunché di originale in ambito pop, il nostro paese si limitava a prendere a prestito quel che offrivano Gran Bretagna e Stati Uniti. E poiché il cantato straniero suonavo ostico agli ascoltatori, ecco la necessità di una pronta traduzione. E poiché il nostro pubblico era abituato a situazioni sentimentali, ecco che i nuovi testi asfaltavano quasi sempre i contenuti originali per parlare quasi sempre di amori. Amori di norma infelici.
Per chiarire il concetto partiamo da un amore addirittura sciagurato. E dai contorni oscuri.
Un classico turboromantico del 1967: Nights In White Satin
Nights In White Satin dei Moody Blues uscì nel novembre 1967, estrapolata dall’album Days Of Future Passed con alcune parti strumentali omesse. Si trattava di una proposta davvero grandiosa, scintillante di mellotron, gorgheggi e London Festival Orchestra. Un pezzone pop con echi del prog ormai prossimo a venire.
Il testo originale (scritto, come la musica, da Justin Hayward) non è fenomenale, ammettiamolo. Tuttavia sfodera un’atmosfera decadente con protagonista un eroe romantico e disperato. Un tipo vestito Carnaby Street, strafatto di assenzio, Mahler e/o Petula Clark. Nulla più che la fotografia, anzi il quadro a olio, di una situazione bloccata in un tempo eternamente notturno.
Notti di raso bianco
Senza mai una fine
Lettere scritte
Senza mai pensare di spedirle
La bellezza che finora questi occhi
Hanno sempre fallito
Cosa sia la verità
Non so più dirlo
Perché ti amo
Sì, ti amo
Oh, come ti amo
Osservare le persone, a volte mano nella mano
Quello che sto vivendo loro non lo capiscono
C’è chi esprime pensieri che non sa difendere
Quello che vuoi essere alla fine sarai
E ti amo
Sì, ti amo
Oh, come ti amo
Oh, come ti amo
Versione italiana 1: Dalida
Al momento dell’uscita il brano raggiunse solo il n. 19 della classifica britannica. Il grande successo sarebbe arrivato con la ripubblicazione datata 1972 e la seconda piazza nelle charts statunitensi. Ma torniamo al 1968 e spostiamoci finalmente in Italia. Il pezzo dei ‘Moodies’ viene percepito – e sarà per sempre ricordato dagli allora ital-giovani – come lentone favoloso. Quando si passa alle parole, sparisce però l’esistenzialismo dandy delle lenzuola di raso bianco (facevano forse omosessuale?). Ed entra in scena il melodramma.
Le traduzioni sono addirittura due. Daniele Pace è l’autore del testo intitolato Un Po’ D’Amore, affidato alla voce di Dalida.
Una preghiera
Non va mai perduta
Vola leggera
Più in alto del cielo
Sopra una pietra
Nascosta del tempo
ho ritrovato queste brevi parole
Io ti prego, io ti chiedo
Un po’ d’amore, un po’ d’amore
Sopra la pietra
Che il sole ha bruciato
Ora è nato
Un piccolo fiore
Questo vuol dire
Che ancora una volta
Il cielo ha sentito
Una voce che prega
E che chiede, e che chiede
Un po’ d’amore, un po’ d’amore per sé
Sopra la pietra
Ho scritto il mio nome
Un’ombra è venuta
E mi ha preso per mano
Sembra che ora
Una voce lontana
Ripeta ancora
Queste brevi parole
Io ti prego, io ti chiedo
Un po’ d’amore, un po’ d’amore per me
Io ti prego, io ti chiedo
Un po’ d’amore, un po’ d’amore per me
La preghiera d’amore viene, pare di capire, esaudita post-mortem tramite la crescita del piccolo fiore sulla pietra, secondo una formula consolatoria di matrice cattolica: ricompensa in cielo delle sofferenze terrene. Più affascinante, e quasi gotico, è il verso in cui l’ombra prende per mano l’io narrante che ha aggiunto il proprio nome sulla pietra. Insomma, l’amore riesce comunque a compiersi, per quanto con poca allegria. Alla resa dei conti, un buon testo, nonostante riesca difficile immaginare Dalida in versione gita in montagna con scarponi e pantaloni alla zuava.
Versione italiana 2: I Profeti, i Bit-Nik e (soprattutto) I Nomadi
Se Un Po’ D’Amore propone contenuti ricchi di pathos, specie nell’interpretazione live proposta qui sopra (attenzione alle mani in preghiera), altrove la faccenda assume connotati a dir poco turgidi. Il testo di Ho Difeso Il Mio Amore è attribuito, ancora una volta, a Daniele Pace (il quale, detto a titolo di curiosità, sarà poi negli Squallor). Le interpretazioni più note, pubblicate a 45 giri rispettivamente nel marzo e nell’aprile 1968, sono quelle dei Profeti e dei Nomadi. Meno conosciuta è la versione dei Bit-Nik, sempre datata 1968, peraltro la migliore quanto a impatto sonoro (si ascolti l’organo Vox, ad esempio). Sono comunque i Nomadi di Augusto Daolio a rendere immortale Ho Difeso Il Mio Amore facendone per anni un cavallo di battaglia dei loro concerti.
Queste parole
sono scritte da chi
non ha visto più il sole
per amore di lei.
Io le ho trovate
in un campo di fiori.
Sopra una pietra
c’era scritto così:
Ho difeso
ho difeso
il mio amore
il mio amore.
C’era una data
l’otto di maggio,
lei era bella,
era tutto per lui.
Poi venne un altro,
gliela strappa di mano
cosa poi sia successo
lo capite anche voi.
Ho difeso
ho difeso
il mio amore
il mio amore.
Questa è una storia
che finisce così
sopra una pietra
che la pioggia bagnò.
Son tornato una notte
e ho sentito una voce,
il grido di un uomo
che chiedeva
perdono.
Ho difeso
ho difeso
il mio amore
il mio amore.
Ho difeso
ho difeso
il mio amore
il mio amore.
Una storia tragicissima (ma non chiarissima)
Sapendo a quali interpreti era destinata questa versione, è probabile che Pace abbia calcato la mano – e mica poco – sui connotati maschili della storia. Storia dove comunque è mantenuta la figura dell’io narrante che scopre un’oscura vicenda scritta su una pietra. Altro elemento che permane è quelle della voce spettrale, “il grido di un uomo che chiedeva perdono”. La chiave interpretativa dovrebbe stare nella frase “cosa poi sia successo lo capite anche voi”. In realtà non è che si capisca benissimo.
Il protagonista uccide l’”altro” che gli “strappa di mano” la fidanzata (ipotesi più probabile)? Oppure, speriamo di no, fredda la fedifraga che, fino a poco prima, “era bella, era tutta* per lui”? Oppure ancora, esagerando, ammazza tutti e due? Difende il “suo amore” nel senso della donna amata o dell’amore da lui provato? Infine, se “non ha visto più il sole”, possibile che neppure mezza attenuante gli abbiano concesso i giudici? Teniamo conto che negli anni ’60 la gelosia come movente (in particolare lo “stato d’ira”) portava persino a delle assoluzioni.
In realtà tutto questo importa sino a un certo punto giacché la carica emotiva di Daolio rende prescindibile la questione etica. Come d’altronde accade in ogni murder ballad che si rispetti. Anzi, Ho Difeso Il Mio Amore, può essere considerata la prima ballata assassina del rock italiano**. Nella versione dei Nomadi il pezzo sarebbe diventato, come detto, un classico cantato in coro da fan giovani e vecchi, da ragazzi e ragazze (v. il video qui sotto) che giustamente non si facevano troppe domande. E “cosa poi sia successo” lo capivano anche loro. Forse.
* Da notare che sia i Profeti sia i Bit-Nik cantano invece “era tutto per lui”
** In chiave pop la anticipano Però Mi Vuole Bene del Quartetto Cetra e Via Broletto 34 d Sergio Endrigo
P.S. Dal lettore Roberto riceviamo questa interpretazione di Ho Difeso Il Mio Amore:
Una persona (quello che canta) vede la pietra, capisce e spiega: un uomo viene assalito da un altro che vuole la sua donna, lui cerca di opporsi, ma viene ucciso dall’altro. Prima di morire fa in tempo a scrivere i versi (Ho difeso… ecc.) sulla pietra. Per questo non vede più il sole, perché è stato ucciso!
Poi, chi ha visto la pietra ritorna e sente la voce di un uomo (l’assassino) che chiede perdono.
Una storia tragica (ma non chiarissima).
Ma no, non hai capito!
Una persona (quello che canta) vede la pietra, capisce e spiega: un uomo viene assalito da un altro che vuole la sua donna, lui cerca di opporsi, ma viene ucciso dall’altro.
Prima di morire fa in tempo a scrivere i versi (Ho difeso… ecc.) sulla pietra.
Per questo non vede più il sole, perché è stato ucciso!
Poi, chi ha visto la pietra ritorna e sente la voce di un uomo (l’assassino) che chiede perdono.
Chiaro?
Ciao Roberto
Caro Roberto, con ritardo di sei anni leggo la tua interessantissima interpretazione. Mi sa che resto della mia idea, ma ti ringrazio molto. E scusami per il ritardo
“Non sapendo produrre alcunché di originale in ambito pop, il nostro paese si limitava a prendere a prestito quel che offrivano Gran Bretagna e Stati Uniti” è un’affermazione alquanto superficiale.
Negli anni ’60 i gruppi beat italiani non sapevano davvero come scrivere i pezzi e questo è un dato di fatto legato al belcantismo della tradizione italiana su cui tutti concordano. Quindi, salvo rarissimi casi, si dedicavano a cantare in italiano brani inglesi o americani (le cover sono davvero migliaia) oppure si affidavano ad autori tipo Francesco Guccini (Nomadi, Equipe84) o Ricky Gianco (Ribelli). Questo non significa automaticamente un giudizio spregiativo (ad esempio Un ragazzo di strada dei Corvi – forse i migliori di tutti- se la gioca con l’originale dei Brogues) ed è indiscutibile che quelle band rappresentarono un taglio netto e modernista rispetto alla dimensione sanremese. Ma la composizione era proprio un problema