Carla Bley

Carla Bley: la libertà, l’eclettismo, il rigore inquieto dell’avanguardia.

Nella musica, come in tutte le arti, e nella miriade dei generi in cui si cerca invano di circoscriverla e di classificarla, ci sono quei talenti che, per unicità e rigore espressivo, non possono fare altro che quello che fanno, instancabili, insegnando e imparando per tutta la vita dagli artisti che incontrano sulla loro strada: Carla Bley, nata Lovella May Borg ad Oakland, in California, pianista e compositrice jazz ma anche carismatica band-leader, era una di loro. Se n’è andata il 17 ottobre a ottantasette anni. L’età non aveva spento il suo spirito libero, la curiosità, la passione, la disciplina inevitabile di artista d’avanguardia.

Tre mariti, gli ultimi due più giovani di lei, tutti eccellenti musicisti. Il pianista canadese Paul Bley, che la invogliò a comporre e del quale si tenne il cognome. Il trombettista austriaco Michael Mantler con cui fu pioniere nella ricerca indipendente d’avanguardia. Il contrabbassista statunitense Steve Swallow con il quale condivise gli anni intensi e i frutti copiosi della maturità artistica. Una figlia, Karen Mantler, anche lei musicista e con la caratteristica pettinatura a caschetto “elettrico”, così somigliante che una volta sostituì la madre a un evento pubblico facendosi passare per lei.

“Aveva il grande talento e l’enorme umiltà di chi si pone davanti alla musica con curiosità, cercando di portare il proprio contributo qualsiasi sia la cifra stilistica dell’artista che ti chiede di collaborare” l’ha commemorata Swallow. “Forse è per questo che tutti volevano lavorare con lei. Perché era una donna incredibile, in grado di mettersi a disposizione di chiunque, insegnando qualcosa ma con il desiderio d’imparare da tutti”.

Il trombettista sardo Paolo Fresu, che con la Bley ha realizzato nel 2007 l’album The Lost Chords Find Paolo Fresu a cui parteciparono anche Swallow, Andy Sheppard e Billy Drummond, ha detto: “La sua visione creativa e geniale ha permeato il passato e il presente della musica contemporanea”.

Il pianista barese Emanuele Arciuli, a cui la Bley ha chiesto di suonare delle sue composizioni inedite: “Sicuramente è stata una delle personalità più importanti in quell’ambito del jazz contiguo alla musica colta contemporanea”.

L’identità nella musica

Non era una virtuosa del pianoforte, la Bley, sebbene già a tre anni suo padre Emil Borg, che lo insegnava, le abbia impartito lezioni. È però considerata una delle più importanti compositrici di musica improvvisata, oltre che un’arrangiatrice originale e geniale.

La passione per il jazz la portò, ancora adolescente, ad andarsene a New York per veder suonare gli artisti che amava. Fece molti lavori per mantenersi: piano bar, costumista, compositrice, arrangiatrice, cantante, tastierista. Per qualche tempo vendette sigarette al Birdland, il celebre locale nella 52a Strada così chiamato in onore di Charlie Parker, detto “Bird”, prima d’essere il titolo, nel 1977, d’una fortunata composizione dei Weather Report.

La leggenda vuole che il direttore artistico, sentendola improvvisare al pianoforte, avesse preteso che dal giorno dopo fosse lei ad aprire il programma. Dopo sei mesi era il nome di punta del giovedì sera. Fu al Birdland, dove pare che tra il pubblico siano capitati ad ascoltarla anche Miles Davis e John Coltrane, che incontrò Paul Bley di cui s’innamorò, che seguì in tournée e che sposò a ventun anni. Prima, però, conobbe Count Basie in quello che, anni dopo, dichiarò essere stato il suo primo momento di felicità.

La futura Carla Bley si faceva chiamare Karen Borg: il suo vero cognome insieme a un nome che le piaceva e che avrebbe dato a sua figlia. Nel 1957 assunse legalmente il nome Carla. Paul Bley la incoraggiò a comporre. Le sue musiche piacquero. Diversi musicisti celebri le inserirono nel loro repertorio e le registrarono nei loro dischi. “Barrage”, album di Bley visionario e radicale del 1964 in quintetto, è realizzato con composizioni di sua moglie.

Il primo matrimonio dura finché Carla non conosce Michael Mantler, con il quale costituisce il gruppo Jazz Composer’s Orchestra pubblicando, nel ’65, il primo album in cui è presente, “Communications”. Si tratta d’una big band d’avanguardia e di sperimentazione. Il secondo omonimo album, nel 1968, annovera un cast stellare di solisti: Cecil Taylor, Pharoah Sanders, Don Cherry, Gato Barbieri, Larry Coryell, Roswell Rudd. La Jazz Composer’s Orchestra diventa determinante per il lavoro che la Bley comincia a registrare avvalendosi del poeta canadese Paul Hines.

Intanto Charlie Haden, contrabbassista considerato l’ideatore del movimento free jazz insieme a Ornette Coleman del cui gruppo faceva parte, la coinvolge nella formazione che sta organizzando per esprimere, attraverso la libertà dei suoni, la ricerca d’un mondo migliore. “Voglio portare via la gente dalla bruttezza e dalla tristezza che ci circonda attraverso la bella, profonda musica”, dice.

La Liberation Music Orchestra

Il disco d’esordio, del ’69, con il nome del gruppo, recupera dei canti popolari della guerra civile spagnola e altre composizioni a sfondo politico per suggerire una riflessione sulla rivolta degli anni Sessanta americani con le battaglie per i diritti civili e contro la guerra del Vietnam. Carla Bley si occupa dell’arrangiamento della maggior parte del lavoro e contribuisce anche con dei brevi passaggi musicali che fungono da alleggerimento. Insieme ad Haden, lei diviene l’ispiratrice e la guida della Liberation Music Orchestra.

Scriverà il contrabbassista nelle note di copertina del disco, pubblicato dalla Impulse: “La musica di questo album è dedicata a creare un mondo migliore, un mondo senza guerre ed assassinii, senza razzismo, povertà e sfruttamento, un mondo in cui gli uomini di governo comprendano il valore della vita e combattano per proteggerla anziché distruggerla”. Si tratta d’un ardito e inedito connubio sperimentale tra il free jazz e la musica politica. Anni dopo, Haden avrebbe ricordato: “Quando uscì, l’album suscitò parecchie discussioni, perché l’ala più conservatrice della critica jazzistica lo stroncò in massa. Quindi finì per passare sotto silenzio. Ma con il tempo è diventato un classico”.

È un disco scandaloso perché pacifista e antimilitarista nell’anno di “Give Peace a Chance” di John Lennon e dei “Moratorium Day to End the War in Vietnam”, le due grandi marce per la pace su Washington, a ottobre e a novembre, a cui parteciparono folle immense di cittadini comuni. Ancora, è un disco anticonformista perché, in una società ancora largamente razzista, vede musicisti nordamericani, latino americani e afroamericani lavorare insieme. Infine, è un disco coraggioso perché difende i più deboli e commemora Che Guevara, ucciso due anni prima dai militari boliviani con la complicità della Cia.

Sempre avvalendosi degli arrangiamenti di Carla Bley e della sua direzione nei concerti, la Liberation Music Orchestra, con formazioni di musicisti sempre diversi che finivano per ruotare intorno alle due figure carismatiche, realizzerà altri quattro album (“The Ballad of the Fallen” del 1982, “Dream Keeper” del 1990, “Not in Our Name” del 2005, “Time/Life” del 2017) più uno dal vivo (“The Montreal Tapes” del 1998), con la band leader che raccoglierà il testimone di Haden quando lui verrà meno nel 2014.

“Charlie si sentiva spinto a realizzare album con la LMO solo quando era infuriato nei confronti del sistema politico” ricorderà la Bley nelle note di copertina dell’ultimo. Sarà pubblicato postumo, con Haden che suona solo in alcune composizioni. Lo sostituisce Swallow, da lui designato, nelle altre.

L’ascensore sulla collina

L’apice creativo di Carla Bley è probabilmente il monumentale compendio “Escalator over the hill”, un’opera jazz pubblicata nel 1971 dalla Jazz Composer’s Orchestra Association (Jcoa), etichetta indipendente fondata da lei, da Mantler e da alcuni musicisti jazz innovativi per promuovere la loro musica. La registrazione aveva richiesto tre anni. Fu un processo creativo, a tratti di geniale dilettantismo, in cui l’imperfezione servì come forza d’ispirazione. Vengono in mente, per l’approccio libero, certe cose di Frank Zappa e dei Can.

Numerosi i grandi musicisti che partecipano. Oltre a pressoché tutta la Jazz Composer’s Orchestra, i cantanti sono Linda Ronstadt e Jack Bruce, già bassista dei Cream. Alla chitarra c’è John McLaughlin, reduce dalle registrazioni con Miles Davis, dalle session con Jimi Hendrix e all’inizio dell’avventura con la Mahavishnu Orchestra.

Nell’orchestra di diciassette elementi, tra cui la piccola Karen Mantler, c’era anche Enrico Rava. Il trombettista triestino, nel ricordare la Bley, ha detto: “Era una musicista eccezionale, originalissima. Ha portato una ventata d’aria nuova sia nel mondo asfittico dell’hard bop sia in quello che era il cosiddetto free jazz in cui spesso c’era un’anarchia distruttiva”. Una musica visionaria, quella di “Escalator over the hill”, dove spiccano il sax tenore (Gato Barbieri) e il trombone (Roswell Rudd), oltre al contrabbasso di Haden.

Piero Scaruffi colloca il lavoro al nono posto tra quelli che ritiene essere i migliori dischi jazz della storia. Fu uno dei primi album tripli dopo che il formato aveva fatto il suo esordio nel maggio dell’anno prima con “Woodstock: Music from the Original Soundtrack and More”, colonna sonora del film sul celebre concerto, seguito a novembre da “All Things Must Pass” di George Harrison. Con un colpo di genio dovuto alla natura del long playing, non replicabile sul compact disc, l’ultima traccia non finisce ma va in loop, a sottintendere l’eterno ritorno del suono: per terminare, occorre sollevare la puntina dal vinile.

Con tutte le sue singolarità ed esagerazioni, “Escalator over the hill” resta un capolavoro senza tempo del jazz d’avanguardia e di frontiera ibridato con il rock, il folk, la musica indiana e perfino il cabaret. Prodotto e coordinato da Michael Mantler con musica della Bley su versi di Hines, risente della passione dell’autrice per le big band. Lo scrittore Stuart Broomer, che lo considera “uno dei lavori più ambiziosi della musica del XX secolo e che sembra riassumere gran parte dell’energia creativa liberata tra il 1968 e il 1972”, ha anche scritto: “Il risultato ottenuto da Escalator è ancora più notevole delle sue ambizioni, creando sintesi di musica e di linguaggio che non erano mai apparse prima (e non più apparse da allora), e aprendo una strada che pochi hanno avuto la creatività o l’energia per immaginare di seguire”.

Ri-orchestrata da Jeff Friedman, una versione dal vivo dell’opera fu rappresentata per la prima volta in Germania, a Colonia, nel 1997.

La libertà come attitudine

Ho avuto l’opportunità di conoscere Carla Bley, e d’intervistarla, un pomeriggio del 2005 ad Alberobello, in Puglia. In serata avrebbe suonato, con la Liberation Music Orchestra, contro la barbarie della guerra diffusa nel mondo dall’Amministrazione Bush II: non si è grandi artisti senza il coraggio della testimonianza. Mi fece l’impressione d’una persona schietta, austera, elegante nella sua semplicità. Diceva quel che diceva per amore del suo Paese e inevitabile deplorazione verso chi ne screditava i valori. Ma non con astio: come serena e inesorabile espressione di verità. La stessa che portava i musicisti della Liberation sul palco a suonare la loro musica.

Enrico Rava, intervistato dall’Ansa, sostiene che la Bley abbia portato nel jazz degli anni Cinquanta e Sessanta, oltre a un’idea originale di composizione, il fatto d’essere una donna, pianista e bella in un ambiente molto maschilista. Un altro elemento caratteriale importante della sua opera è stata l’ironia sagace, oltre alla capacità d’imporsi che era però una conseguenza, oltre che del talento, dell’umiltà. “L’ascolto è più importante d’ogni altra cosa perché la musica è questo” diceva. “Qualcuno sta suonando qualcosa e tu lo stai ricevendo. È inviare e ricevere”.

Fondatrice nel 1970 d’una big band con il suo nome, e tre anni dopo, con Mantler, dell’etichetta Watt Works per realizzare i loro lavori inaugurata con il suo album “Tropic appetites”, Carla Bley avrebbe continuato a vedere nella musica il ponte verso altra musica.

Presente in oltre cinquanta dischi, intraprese collaborazioni con artisti rock e d’avanguardia come il menzionato Jack Bruce con Mick Taylor che aveva lasciato i Rolling Stones (Carla suonava l’organo Hammond), Elton Dean, Hugh Hopper, Robert Wyatt, Chris Spedding, Gary Windo (con cui arrangiò e suono 8½ di Nino Rota, colonna sonora del capolavoro di Federico Fellini). E poi John Greaves, Nick Mason (il batterista dei Pink Floyd per il quale realizzò tutte le canzoni del suo primo album solista, “Fictious sports” del 1981), i Golden Palominos, fino alla punk band Burning Sensation con la quale suonerà le tastiere facendosi chiamare Penny Cillin.

Carla Bley ha calcato i palcoscenici di tutto il mondo con la sua big band e con tante altre formazioni senza trascurare quell’irriverenza che, forse scaturita come via di auto affermazione negli anni giovanili, divenne tra gli anni Settanta e Ottanta una forma di espressione e di divertimento. Affrontò il maleducato pubblico di Berlino, e non solo, cantandogli “boo”, invogliandolo a fare altrettanto e a tirargli della frutta. Ha proposto, come band-leader, un repertorio musicale originale per stile e arrangiamenti esaltando la creatività dei solisti per arrivare al sound che la caratterizzava e che la proietta nella storia della musica. Insieme a quelli di Duke Ellington e Gil Evans, i suoi arrangiamenti per orchestra sono considerati tra i migliori. Come musicista, invece, anche se lei si considerava tale solo marginalmente identificandosi con la composizione, il suo stile essenziale non era una limitazione, ma l’effetto d’una elaborazione culturale il cui punto d’arrivo era l’essenzialità.

Carla Bley Life

Il suo ultimo disco, “Life goes on”, con Swallow e Sheppard, è di tre anni fa. In una intervista del 2017 al mensile Musica Jazz, diceva: “A volte passi ore e ore a lavorare e ti rendi conto che non stai producendo nulla di interessante. Che cosa fare, a quel punto? Arrendersi? Mai. Bisogna continuare a cercare fino a quando non si trova una via d’uscita. Posso avere tra le mani la peggiore idea del mondo e trasformarla in qualcosa di buono, se mi impegno per arrivare a un risultato dignitoso”.

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Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

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