Renato Zero contro Rosa Chemical? Polemica inutile, gusto dell’esibizione o mossa astuta per accendere nuovamente i riflettori su di sé? Comunque sia, Renato Fiacchini, in arte Renato Zero, torna a far discutere. E anche noi torniamo a parlarne, con un ricordo sospeso nella calura estiva della Versilia anni Ottanta e attraverso l’album EroZero, che lo rese per sempre Zero, trasformandolo definitivamente in un fenomeno mediatico e musicale senza precedenti in Italia. Correva l’anno 1979.

Renato Zero star di una lontana estate versiliese

Versilia, estate, bagni Principe di Piemonte. Un gruppo di ragazzini smilzi gioca a pallone nella canicola, il riflesso del mare negli occhi. Renato Fiacchini è poco più in là. Adagiato indolente su un lettino, in compagnia di qualche amico, ha l’aria di un Trimalcione svogliato e sfiatato. Si trova presto circondato, qualche parola annoiata, con accento inconfondibile, si sa, la regala d’abitudine. Si anima, scherza, ride, prende in giro e dà qualche colpo al pallone. È il giugno (ma forse il luglio) del 1986. È una star Renato Zero e quell’estate è il semidio di turno della piccola borghesia toscana in vacanza: che ne invidia le stravaganze, ne commenta il lusso (la suite al Grand Hotel da lì a poco decrepito, la Rolls Royce bianca, le cene infinite al “Patriarca”) e, ammiccando al pettegolezzo infinito sulla sua dubbia identità sessuale, torna a leggere il giornale. I più arditi la sera fanno tardi alla Bussola.

Renato Zero - Zerolandia

Renato Zero è al culmine della popolarità, ma gli anni Ottanta si stanno già rivelando un letto di Procuste. Ammainato da due anni il tendone di Zerolandia e spazzato via l’odore grezzo, da sgangherato bivacco teatrale e musicale, che tanto ha contribuito al fascino sghembo della decade musicale precedente, Zero si ascolta meno. Le sonorità elettroniche e funky, gli arrangiamenti plastificati, le ballate gonfie d’archi di Soggetti Smarriti fanno storcere il naso. Il disco vende poco per lo Zero di quegli anni (raggiunge il terzo posto nella hit parade), lo si sente ancora meno e nella calura versiliana sembrano lontani, e lo sono infatti, i tempi in cui Renato impazzava al vertice delle classifiche con il disco che meglio lo ritrae: EroZero (1979).

EroZero: Renato Zero al suo apogeo

EroZero è, come ogni grande disco di Renato Zero che si rispetti, sommamente imperfetto, fondato, come chi lo ha partorito, su contraddizioni non sanabili e su difetti esibiti. Monumentale e fragile, guascone ed intimista, riflessivo e provocatorio, EroZero è un irriverente canovaccio di commedia dell’arte che si anima e prende forma, ed è forma non di rado insuperata, anche grazie alla dissimulata presenza del genio silenzioso ed onniscente di Piero Pintucci, che scrive musica, arrangia, produce e dirige l’orchestra come può e sa fare soltanto Piero Pintucci.

In EroZero si celebrano gli anni Settanta della musica popolare italiana ed il sipario cade, pesante, polveroso e fragoroso, su un decennio irripetibile: anni melodici e violenti, ricchi di esperimenti e colmi di ambiguità, non di rado coraggiosi, sgangherati e irridenti, e pure cupi e gravidi delle ferite di un Paese che aveva da tempo perduto ogni innocenza e che, da lì a poco, non avrebbe più saputo veramente ridere e neanche sorridere di sé.

Il Carrozzone, già singolo strepitoso con Baratto sul lato B, apre EroZero e lo trascina a suon di bubboli e  sonagli alla vetta delle classifiche. Una malaccorta Gabriella Ferri si era decisamente rifiutata di interpretarlo. La canta Zero, che eccessivo, ammiccante e decadente, ne fa una metafora vigorosa dell’eterna e pure  sempre toccante vicenda della vita e della morte, popolata di buffoni veri, fanti e regine di cartapesta, smaltati di colori felliniani, ma freddi e illividiti nella loro malinconia. Non si sa cosa si abbia davanti, se canzone popolare, cabaret, teatro di strada o sberleffo cinico e doloroso; la voce di Zero arriva da latitudini non terrene, punto di fusione delle spinte e controspinte che animano una delle melodie italiane più potenti d’ogni tempo.

Zero, abile e spregiudicato costruttore del proprio personaggio in musica non meno che della propria immagine pubblica, sa bene che tanta trazione emotiva deve subito essere alleggerita. E allora segue Fermo Posta, funk sincopato ma non irresistibile che sposta la mira sulla prurigine italiana per gli amorazzi al buio e ci rende Zero come ci se lo aspetta: cautamente scandaloso, oculatamente irriverente, un occhio alla strada e uno in sagrestia, cheallude e alla fine non dice, promette e non svela. È una parentesi di sollievo, dopo di che la curva emotiva si impenna di nuovo con La Tua Idea, forse il capolavoro di Zero, che ne scrive parole e musica: violentemente teatrale, è un’intensa variazione sul tema della perdita di sé nel mare infinito della dipendenza da persone, cose o sostanze.

Toccato l’apice drammatico, si cambia registro di nuovo, e si torna al comico. “Se ti do il pelo tu che mi dai?” canta Zero ed è veramente difficile non fare il coro, accompagnandolo in questa geniale ed allegra degradazione dell’elegia sentimentale a Baratto,  in cui l’amore è ridotto a un surreale scambio d’organi, tessuti, frammenti corporei. Un ritmo indiavolato sorretto dalle percussioni, voci e coretti surreali fuori campo, e la finale storpiatura verdiana, fanno il resto come meglio non si potrebbe.

Un’oasi distesa e quieta dopo tanto strepito arriva con Rete d’Oro, ballata tenue e ammaliante, ammorbidita dai cori dolcissimi delle Baba Yaga, che nessuno oggi ricorda chi siano, ma allora erano ovunque. Prelude ai mari agitati di Periferia, altro  vertice di EroZero. Soffia in Periferia un vento pasoliniano, un amore scontroso per le logore borgate fuori dalla storia nelle quali, fra rifiuti e dolore, muore il mondo dei diseredati, ch e è anche amore per il se stesso ragazzo di ieri.

Lontani da quelle terre di nessuno, asserragliati nella loro gelida indifferenza, reclusi nei bunker della distruzione, sono descritti i potenti di Grattacieli di sale, grido vigoroso, ma impreciso e generico, diretto verso la follia umana che preme bottoni esiziali. Con Rh negativo di nuovo un intermezzo comico, ma qui la dissacrazione non morde, e non basta a Zero degradare il tema della vita e del suicidio, né pronunciare la parola scandalosa «eutanasia» per riscattare Rh negativo dal destino di perla nera di EroZero.

Prima della splendida ballata pianistica Arrendersi Mai, ingenua ma efficace riaffermazione della volontà individuale contro la perdita di identità imposta della modernità, EroZero era tornato a correre con il teso pop-rock ballerino di Nascondimi. E qui siamo al cuore, tocchiamo con mano (ammesso che interessi) il nocciolo profondo della ‘zerosofia’, così come il cantautore romano l’avrebbe dispensata per decenni a sorcini veneranti e a benpensanti accigliati.

Concentrato di vittimismo e masochismo, gusto dell’umiliazione e compiaciuta esposizione al giudizio, malizia nel fare il dispetto pregustando la giusta punizione, esibizione e vergogna, la furba e molto personale cristologia artistica di Renato prova a tenere insieme tutto: ambiguità ed ortodossia, martedì grasso e mercoledì delle ceneri, monache e puttane, Dio in rima con Io, innologia antiabortista e vademecum della liberazione sessuale. É un gioco complesso, spregiudicato, remunerativo, ma in fondo disperato, di continua scissione e ricomposizione della personalità.

Lo strano film Ciao Nì!

E proprio questa frattura dell’Io, ritratto in equilibrio impossibile fra assalto al cielo e conformismo, è al centro di Ciao Nì!, al tempo stesso grottesco thriller musicale, sterminato videoclip (quattro i brani da EroZero), e farsa felliniana sgangherata e surreale. Firmato in quello stesso 1979 dal regista Paolo Poeti, su soggetto dello stesso Zero,Ciao Nì! è ancora oggi godibile per lo spirito irridente, i costumi sgargianti, il sublime fascino glam, un po’ Ziggy un po’ via di Ripetta, e, non ultimo, per la presenza del sergente Paolo Rovesi, al quale Renato si presentò in giarrettiere e mutandine di seta durante la visita di leva.

Tutto questo, ovviamente, Alice non lo sa, né potevano sospettarlo i ragazzini smilzi che giocavano nel sole della Versilia nel giugno 1986 (che forse era luglio). Ma di certo tutti loro quel Renato un po’ annoiato e scostante, ma amante della caciara, dalla battuta pronta e grossolana, pronto a calciare con loro palloni vietatissimi su spiagge molto borghesi, lo ricordano bene, con quella venerazione un po’ pudica e vergognosa che si porta al proprio passato.

 

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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