Jason Molina

Un ricordo di Jason Molina, scomparso a quarant’anni il 16 marzo 2013

Di cowboy elettrici rigurgita il grande libro della canzone americana. Ed anche di lapidi ed epitaffi a loro dedicati. Jason Molina, classe 1973, aveva in dono doti inusuali di scrittura e solidi numeri di musicista, e sembrava poter guidare la schiera del nuovo songwriting americano che si andava facendo le ossa sulla fine degli anni Novanta.

Ma il suo cavallo era zoppo e Jason cadde di sella il 16 marzo 2013. Da allora dorme sulla collina, stroncato a quarant’anni dalla sua “complicata relazione” con la bottiglia, come ebbe a definirla l’altro Jason, Groth, suo compagno di strada nella ruvida e saporosa cavalcata folk-rock dei Magnolia Electric Co.

Da quella affollata Spoon River della gloria abbattuta in pieno sole, qualche suono era sfuggito di recente, e nel 2020 era apparso l’edificio in costruzione di Eight Gates. Poco più di 25, emozionanti, minuti di Molina fuso e spezzato, allo stato puro; disco incompiuto, abbozzato, incompleto, appoggiato su una parca tavolozza di strumenti, toccava più per quel che lasciava intendere che per quel che poteva offrire, con piccoli lacerti di canzoni che promettevano di essere canzoni grandi. Gestato a lungo, nel corso dei suoi tormentati anni 2000, Jason aveva finito per portarselo con sé all’inferno. Ad ascoltarlo oggi, resta il disarmato documento di un talento eccezionale che fluttua senza meta al vento del dolore.

La breve, intensa, difficile carriera di Jason Molina

Esperienze, esperimenti, abbinamenti, cambi di pelle, Molina ne ha lasciati molti lungo la via. A cominciare dalla sua prima creatura, quei Song: Ohia, riversatisi e fusi senza vera soluzione di continuità nei Magnolia Electric Co, costola elettrica di un musicista che sapeva come affondare le mani nelle radici di una eterna, meditativa Americana senza smentire il fragoroso amore giovanile per i Black Sabbath. E non stupisca che Molina abbia reso omaggio tanto a costoro che a Townes Van Zandt con riletture di gran classe; valga anzi come conferma una volta di più di come una originale, inconfondibile identità abbia spesso in sorte di reggersi in equilibrio sulla sintesi di dualismi esasperati.

Chi scrive resta però convinto che il nocciolo profondo della musica, e ci sia consentito, dell’esperienza terrena di Jason Molina, sia sepolto sotto l’austera e scabra potenza dei sui colpi di penna acustici e sotto l’incedere di un country rock rugoso e pronto a diluirsi in ballate di abbandono. È lungo questa strada che si incrocia il bellissimo Molina & Johnson (2009), frutto maturo e screziato, sbocciato dalla collaborazione, e più ancora dalla profonda comunione di intenti e di spirito, con Will Johnson (che a Molina dedica toccanti parole d’amicizia fraterna nella prefazione alla accurata biografia di Erin Osmon, Jason Molina. Riding With The Ghost).

Jason è andato, e non è detto che non sarà dimenticato. Se però un suo canto dovesse essere lanciato nello spazio profondo perché sia noto agli algidi abitanti delle galassie cosa abbia significato per gli umani la perdita di sé, quello è Let Me Go, Let Me Go, Let Me Go (2006). Modulato lungo le corde tese e sconsolate del gemello disperso On The Beach di Neil Young, scritto e composto alla deriva della vita e con un senso di disfacimento prossimo e sicuro, Let Me Go, Let Me Go, Let Me Go è un documento sonoro di intensità sconcertante e quasi intollerabile.

Let Me Go, Let Me, Let Me Go: il sunto di una carriera ma, soprattutto, di una vita

Grumo di canzoni di impressionante impatto sonoro ed emotivo, non a pieno compreso e, almeno a parere di chi scrive, notevolmente sottovalutato, Let Me Go, Let Me Go, Let Me Go è ben più di un pugno di musica vibrante, è una vera apoteosi della sconsolatezza, la disarmata confessione dell’abbandono ai flutti troppo alti del mare della vita e a quelli dell’alcol. Questi scarsi trentacinque minuti di musica sono un monumento alla sofferenza: essenziale, scavato nella roccia e nel sangue. Non c’è in Let Me Go, Let Me Go, Let Me Go una sola parola di conforto, ma la discesa consapevole, gradino dopo gradino, della strada a precipizio della disperazione e la nitida consapevolezza di un futuro di vita che si sfibra in solitudine.

Le nove canzoni di Let Me Go, Let Me Go, Let Me Go sono le stazioni di una via crucis di laico dolore e rassegnazione. Il grido disperato di Alone With The Owl, che è quello di chi vede sgretolarsi i muri di una vita che credeva facile e diversa, si sposa con le iterazioni sussurrate, della canzone che dà il titolo all’album e di Get Out, Get Out Get Out, a lasciar andare, a disperdere, ad allontanare, perché resti soltanto silenzio e morte. La pioggia perenne ed infinita che scende su Don’t It Look Like Rain e It Must Be Raining There Forever, simbolo di immutabilità e di indifferenza, è un correlativo emotivo forte, forse il migliore, per questo lavoro su cui non splende mai il sole, per questo Pink Moon da cui è fuggita ogni dolcezza, non fosse che quella dei barbiturici.

Ogni orpello musicale è bandito: chitarra acustica, qualche frase di piano, il tonfo sordo della batteria, un violoncello. Sta tutta qui la bellezza sinistra e inospitale, da marcia funebre, di It Costs You Nothing e quando la chitarra elettrica di Molina torna a cantare in Let Me Go, Let Me Go, Let Me Go, e lo fa una sola volta, è per sottolineare con strazio l’invocazione ripetuta a lasciarlo correre da solo in un prato in cui non c’è ormai spazio per nessuno, nemmeno per lui.

Cosa ci lascia Jason Molina

Molte note ha lasciato cadere questo ragazzo mai cresciuto dell’Ohio lungo la sua strada accidentata e breve. Chi avrà la voglia e pazienza di raccoglierle difficilmente le dimenticherà.  E noi sappiamo che se mai Jason Molina avrà modo di tornare sulla terra dalla riva dei cavalieri pallidi e degli sconsolati, sarà sul dorso di un fantasma di ronzino, con la chitarra dietro la schiena. Senza speranza, con un lieve sorriso e con la melodia timida, impaurita e sconfitta di Let Me Go, Let Me Go, Let Me Go trasformata in una educata, infinita litania.

 

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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