Un ricordo di Klaus Schulze, corriere cosmico (1947-2022)
“Ho 18 sintetizzatori sul palco e non sono mai fuori tono perché li amo veramente. Parlo con loro, e se per caso qualcuno mi procura dei problemi gli dico ‘ok, non ti suonerò stasera… se c’è qualcosa qui che non ti piace, non insisterò. Domani si vedrà.’ È davvero semplice come sembra. Devi riflettere sul fatto che ci sono 2000 anni di evoluzione intellettuale umana dentro a queste macchine… 2000 anni di successi e sconfitte. Loro si raffreddano e si riscaldano proprio come noi.”
(Klaus Schulze, 1981)
La notizia della morte di Klaus Schulze addolora molto e sorprende anche un po’, perché si fatica a considerare il geniale compositore tedesco come uno di noi, un comune mortale, soggetto all’invecchiamento ed alla malattia. Ho sempre pensato che, grazie alla simbiosi con la complessa tecnologia con la quale lavorava da ormai mezzo secolo, avesse realizzato il sogno (o l’incubo) dei transumanisti, avesse trasferito la propria coscienza all’interno delle macchine, diventando macchina lui stesso, sconfiggendo così la morte. Una delle immagini simboliche di ciò che siamo soliti chiamare krautrock, è quella di Klaus, emaciato e pallido sotto i capelli a caschetto, spesso abbigliato di un bianco quasi spirituale, seduto su un tappeto in mezzo a pile di ingombranti sintetizzatori analogici, corredati da tastiere, manopole e grovigli di cavi. Suona così in una performance registrata dalla TV tedesca nel 1977, voltando le spalle al pubblico, che lo vede riflesso in un grande specchio inclinato sopra di lui.
Il primo, storico album: Irrlicht
Klaus comincia come batterista; è paradossale che abbia esordito con dischi in cui le percussioni ed il ritmo sono assenti, ma, come si capisce dalla citazione riportata all’inizio, il suo rapporto con gli strumenti elettronici era di una fisicità simile a quella di chi percuote i tamburi. I dischi d’esordio di Tangerine Dream e Ash Ra Tempel, a cui partecipa, si possono ancora considerare rock, anche se sperimentale, si rifanno alla psichedelia più avanguardistica, quella dei Pink Floyd del dopo Barrett e della West Coast più acida ed espansa. Lui però ha in mente qualcosa di più radicale e innovativo, si sgancia dal vecchio strumento, mette su uno studio di registrazione, compra un synth e di getto incide Irrlicht (“allucinazione di luce”), un album di una bellezza davvero abbagliante, annunciato, con una magniloquenza che sarà il suo marchio di fabbrica, come Quadrophonische Symphonie für Orchester und E-Maschinen. Più che al rock ‘n’roll siamo vicini al possente classicismo di Wagner, che il nostro ammira moltissimo. L’orchestra, i cui membri probabilmente pensano che Klaus sia completamente pazzo, suona come fosse sospesa nello spazio senza gravità, sferzato dai venti cosmici, ma a farla da padrone sono gli accordi maestosi del synth, di una lunghezza infinita (ottenuta poggiando molto materialisticamente dei pesi sulle tastiere). Le distanze intergalattiche evocate si stratificano fino ad ottenere un effetto drone stordente e, quando si aggiunge anche l’organo, l’intensità diventa quasi insostenibile. Più tenue ma non meno inquietante è il lato B, ronzii e vibrazioni sembrano l’eco del big bang, disturbi di fondo appaiono e scompaiono come ectoplasmi, il tutto precipita poi nel silenzio, viene riassorbito nel vuoto, torna al nulla da cui è stato misteriosamente evocato.
Con l’incontenibile Klaus i 20 minuti canonici di durata di un lato di LP si dilatano fino a mezz’ora, ma avventurarsi nell’ascolto dei suoi brani significa entrare in una dimensione in cui la percezione del tempo è distorta. A differenza di tanta musica elettronica del passato questa non suona mai datata, sembra fatta per essere eterna, come l’armonia delle sfere. Klaus entra di diritto a far parte della Grande Saga dei Corrieri Cosmici, insieme a un manipolo di altre teste matte teutoniche.
Klaus Schulze dal krautrock alla techno
Sulla falsariga di Irrlicht arriva un anno dopo, nel 1973, Cyborg, monumentale doppio album (una risposta a Zeit dei Tangerine Dream?), meno istintivo e più ragionato, inciso con un’orchestra più numerosa, un muro del suono ancor più potente. Le quattro facciate sono altrettanti monoliti spaventosi, suscitano un misto di meraviglia e timor panico, raggiungono profondità abissali, lasciano sgomenti dinnanzi alla pura bellezza del suono. Il titolo Neuronengesang suggerisce che gli spazi esplorati non siano solo quelli interstellari, ma anche quelli, altrettanto insondabili, della mente.
Da lì in avanti Klaus diluisce questa energia dirompente, aggiungendo elementi che rendono la sua musica sempre più sofisticata, più fruibile, più umana e aperta alla melodia, pur continuando a guardare al cosmo. Si consolida la capacità di cesellare raffinati affreschi sonori, che contribuiscono a gettare le basi per la musica new age e ambient.
Col passar del tempo, e con l’accentuarsi della prolificità discografica, entra in scena un pur pregevole manierismo, ma tutta la produzione degli anni ’70, incluse le collaborazioni, rimane ispirata e di ottimo livello. I ritmi, rendono meno astratte le tessiture sonore, soprattutto sotto forma di ipnotici loop di sequencer che ad ogni cambio di tonalità sembrano aprire nuovi orizzonti nel paesaggio musicale. Si tratta di una prassi ispirata dai minimalisti che diventerà abituale nell’elettronica, fino ad arrivare alla techno. Collaborano a volte percussionisti come Michael Shrieve e Harald Grosskopf. In alcuni dischi fa capolino anche la voce: Arthur Brown declama un lungo testo sul lato B di Dune (1979), mentre si può addirittura sentire un tenore su Blackdance (1974). Quest’ultimo è uno dei miei album preferiti, e mi fa piacere che un krautrocker illustre quale Julian Cope sia d’accordo con me. In Ways of Changes ai sintetizzatori si abbinano dei malinconici arpeggi di chitarra 12 corde ed un tappeto di congas, l’insieme suona come un inusuale ed evocativo cosmic-raga-folk.
In epoca punk e new wave niente sembra più anacronistico di queste interminabili suite, ma il nostro Corriere Cosmico non se ne cura, ha una missione da compiere e tira dritto per la sua rotta. Nel ’78 pubblica uno dei suoi lavori più imponenti ed ambiziosi, il doppio X. Nello stesso anno vara un’etichetta discografica, la Innovative Communication, devota naturalmente alla musica elettronica.
Nella quantità incalcolabile di dischi prodotti nei decenni successivi, che vedranno il passaggio dall’analogico al digitale, è difficile scovare dei lavori altrettanto validi. Due eccezioni possono forse essere Audentity (1983), nel quale l’autore si prende la libertà di confrontarsi con ritmi ballabili, e Kontinuum (2007), ma sarebbe bello se qualche lettore ci suggerisse altri titoli da rivalutare.
Il 26 aprile scorso il Corriere Cosmico è partito per il suo ultimo viaggio; ci piace immaginarlo da solo alla guida di un’astronave, chino davanti a una consolle sterminata. Con i suoi suoni ha spalancato finestre sull’infinito, ora è libero di esplorarlo. Rest in Space, Klaus.