Robbie Robertson

Robbie Robertson: l’America nella faccia

Le diverse espressioni della faccia di Robbie Robertson, fino agli ottant’anni compiuti un mese fa, contenevano quella mescolanza di tratti etnici che, in innumerevoli combinazioni, ha reso grande l’America. Figlio d’un giocatore di carte ebreo e di un’indiana di origine irochese e moicana, Jaime Robert Klegerman assunse il cognome del patrigno dopo la morte del padre naturale, che non conobbe, in un incidente d’auto. Imparò a suonare la chitarra nella riserva indiana delle Sei Nazioni dell’Ontario, dove sua madre era cresciuta e dove lui andava in vacanza. I familiari hanno chiesto in suo ricordo, al posto dei fiori, delle donazioni per realizzare, nella stessa riserva delle Sei Nazioni, un centro culturale. 

È l’ideale seguito dell’impegno per il recupero e la valorizzazione della sensibilità artistica dei pellerossa che Robertson, terminati i viaggi e le registrazioni con Bob Dylan e la Band, tra una colonna sonora e l’altra per Martin Scorsese (l’ultimo suo lavoro ha riguardato alcune canzoni per il nuovo film Killers Of The Flower Moon), espresse negli anni Novanta in due dei sei album, il primo nel 1987, l’ultimo nel 2019, della sua esperienza solista. Particolarmente rilevante il primo dei due: Music For The Native Americans, 1994.

Il suono al mercurio e Dylan il Giuda 

Nel 1960, dopo varie collaborazioni, Robbie fa il bassista per il cantante Ronnie Hawkins: non ha ancora diciassette anni. Roy Buchanan, il chitarrista del gruppo di accompagnamento, gli Hawks, se ne va presto. Non prima, però, che il suo sostituto, Robertson, abbia imparato molti trucchi del mestiere. Nel ‘63, nel 45 giri con Who Do You Love di Bo Diddley cantata da Hawkins, ci sono tutti i musicisti della futura Band: oltre a Robbie, il batterista Levon Helm dell’Arkansas, unico americano tra canadesi, Rick Danko al basso, Richard Manuel al piano, Garth Hudson all’organo.

Lasciato Hawkins, alla fine del ‘64 Robertson, Helm e Hudson partecipano alle registrazioni dell’album So Many Roads di John Hammond Jr., figlio dell’omonimo produttore della Columbia che scoprì Bob Dylan (e Billie Holiday, Pete Seeger, Aretha Franklin, Leonard Cohen, Bruce Springsteen). In quell’occasione Dylan conosce Robertson: sono i giorni di Bringing It All Back Home, il primo album della “trilogia elettrica” che avrebbe cambiato la storia del rock. Quando se ne va il chitarrista Mike Bloomfield, con Highway 61 Revisited pubblicato da poco, il cantautore si ricorda del ragazzo canadese.

Robbie, insieme ad Al Kooper all’organo, Hargus “Pig” Robbins al pianoforte, Kenney Buttrey alla batteria, è il protagonista del “sottile e teso suono al mercurio, metallico e rilucente”, come Dylan dirà nel 1978. È la magnificenza di Blonde On Blonde, il terzo della “trilogia elettrica” che anticiperà di alcuni giorni, come primo doppio long playing rock della storia, Freak Out! di Frank Zappa con le Mothers Of Invention. Nel disco, insieme a Robertson, ci suonano tutti gli Hawks tranne Helm: non aveva sopportato i fischi che all’epoca inseguivano Dylan nei concerti per aver sostituito la chitarra acustica e l’armonica a bocca con gli strumenti elettrici.

È ben noto il momento cruciale di quel braccio di ferro epocale che vide un Dylan testardo domare un pubblico riottoso. Avvenne il 17 maggio 1966 alla Free Trade Hall di Manchester. Già un anno prima, al celebre festival folk di Newport, l’artista aveva scandalizzato i puristi suonando elettrico dopo una prima parte acustica. Altrettanto fa a Manchester. Al termine di “Ballad of a thin man” qualcuno grida: “Giuda!”. Il pubblico rumoreggia annuendo. Dylan al microfono: “Non ti credo”. Lui e gli Haws accennano “Like a Rolling Stone”. Dylan, ancora: “Sei un bugiardo”. Poi, al gruppo: “Suonatela dannatamente forte”. Parte, potente come una cannonata, il sottile suono al mercurio. Dylan, la testa riccia che un anno dopo sarebbe stata trasformata in una riggiola psichedelica da Milton Glaser nel poster con il suo profilo, declama feroce e ispirato. Robbie Robertson gli è accanto con la Telecaster bianca.

Alla fine sono solo applausi.  

I nastri di Big Pink e la Repubblica invisibile

Tre album capolavoro, di cui uno doppio, in appena quindici mesi, sono tanti anche per il giovane Bob Dylan in stato di grazia. Il 29 luglio, settantatré giorni dopo Manchester, l’artista ha un incidente in motocicletta di cui ancora oggi si sa poco. È l’occasione per sfuggire il logorio della vita su strada. Anni dopo: “Avevo una famiglia e volevo solo vedere i miei bambini”.

Quando torna a fare musica, sia pure lontano dai palcoscenici, Dylan si riunisce agli Hawks: prima qualcuno, poi tutti. C’è una casa, chiamata Big Pink dal colore rosa dell’esterno, acquistata da Rick Danko dalle parti di Woodstock dove Dylan vive e dove, due anni dopo, si sarebbe svolto il concerto rock forse più importante della storia.

Tra il giugno e l’ottobre ‘67, nello scantinato adibito a studio di registrazione, in realtà più d’uno ma prevalentemente in quello di Big Pink, i musicisti avrebbero registrato l’equivalente di oltre sei ore di musica per complessive 139 fra prove, canzoni, cover, versioni alternative, scrivendo un capitolo fondamentale della musica popolare americana. In questa forma onnicomprensiva saranno però pubblicate solo nel 2014 nella discografia di Bob Dylan come undicesimo volume della The Bootleg Series intitolato The Basement Tapes Complete. Prima di allora quelle leggendarie sessions informali, senza il vincolo d’una pubblicazione discografica, quindi di tempi di consegna, troveranno in minima parte accoglienza nel 1969 in “The Great White Wonder”, il primo disco illegale, o bootleg, della storia. In forma ufficiale saranno invece rilasciate nel 1975, riviste e corrette da Robbie Robertson anche con sovraincisioni, nel doppio album dal titolo The Basement Tapes, per un totale di ventiquattro canzoni.

È nello scantinato di Big Pink, nei quattro mesi di passaggio dall’estate all’autunno, che gli Hawks diventano la Band. Nei giorni del flower power, della summer of love, della psichedelia e dell’acid rock, Dylan e i suoi amici vestono da campagnoli, le barbe incolte, e inseguono quella che il saggista Greil Marcus chiamerà “la Repubblica invisibile”, ovvero una loro idea di America ancestrale, mitica e avventurosa, in cui le canzoni, scriverà Marcus, “sono come rappresentazioni dell’antica maschera americana”. Invece che al futuro, si guarda al passato che ha costruito quell’idea di grande Paese pluralista e democratico capace di tenere insieme, non senza conflitti, differenze e contraddizioni. 

“Fu Dylan a introdurci in quel mondo di ballate e canzoni fuori dal tempo, a farci entrare in quella ‘repubblica invisibile’ di storie e di personaggi dimenticati” ha detto Robertson. Dylan, invece: “Il rock psichedelico stava conquistando l’universo, e così noi cantavamo queste ballate caserecce”. Ancora Robertson sempre a Marcus che gli proponeva di definire “un laboratorio” quell’esperienza: “Piuttosto fu una cospirazione. Erano come i nastri del Watergate. Di molta di quella roba Bob disse: dovremmo distruggerli”.     

“The new sound of country rock”

“Non ci sono molte band nei dintorni di Woodstock e i nostri amici e vicini ci chiamano semplicemente la Band ed è così che ci pensiamo anche noi. Non crediamo che un nome significhi per forza qualcosa. Mi è sfuggita di mano la questione del nome”. È il 1968 e Robbie Robertson è il leader d’un gruppo formalmente paritario, ma dove sarà lui, progressivamente, a prendere le decisioni più importanti anche perché almeno tre su cinque elementi avranno problemi di alcol e droga. 

Tra le voci potenti e ispirate di Helm, Manuel e Danko, Robbie ha poche occasioni di emergere come cantante. Si rifà come autore, anche se più tardi Helm, nel contesto d’un contenzioso sui diritti d’autore che non si è mai concluso se non con la sua morte nel 2012 per una malattia, dirà che gli sono stati attribuiti eccessivi crediti. Quattro canzoni su undici del primo album e tutte le dodici del secondo, di cui due insieme a Manuel e una insieme allo stesso Helm, portano la sua firma, tra cui le fondamentali The Weight e The Night They Drove Old Dixie Down. Quest’ultima, nella versione di Joan Baez, arriva nel 1971 al terzo posto nella classifica dei 45 giri di Billboard. Racconta la guerra di Secessione vista con gli occhi d’un soldato confederato e delle sofferenze che quel conflitto inflisse agli stati del Sud a cui si riferisce l’espressione ‘Dixie’. La storia vista dalla parte dei perdenti è una costante dei testi. 

Music From The Big Pink, con un acquerello di Dylan in copertina, e The Band, del 1969, ridefiniscono in maniera sincera e verace il country rock. Il 12 gennaio 1970 il Time mette in copertina Robbie e compagni con la scritta: “The new sound of country rock”. La leggenda vuole che Eric Clapton, ascoltando il primo album e consapevole del declino dei Cream, li sciolga per recarsi negli Stati Uniti con la speranza di entrare a far parte della Band: sarebbe stato un bel problema con Robertson! Oggi quei dischi, parte del patrimonio culturale nazionale, sono capitoli essenziali dell’Americana, quel genere distintivo della musica rurale statunitense orientata alle radici del country, del blues, del folk, quindi con elementi gospel, spiritual, soul e soul bianco, honky-tonk, ragtime, dixie, cajun, rock’n’roll, con sprazzi di musica barocca, filtrati dalla sensibilità, dall’onestà intellettuale e dalla perizia di ciascun musicista.

Fino all’ultimo valzer

Senza Dylan, difficilmente dei musicisti eccellenti ma sconosciuti avrebbero ricevuto l’attenzione che meritavano. “I suoi amici, i suoi consiglieri, tutti gli hanno detto di licenziarci e ricominciare da zero. E ha avuto un enorme coraggio a non farlo” riconobbe Robertson nel 1987. Senza la Band, Dylan non avrebbe trovato per quasi un decennio, fino alle zingarate della Rolling Thunder Revue di metà anni Settanta, persone capaci di dargli forza e difendere le sue fragilità, valorizzando la sua arte ricambiandolo con lealtà, amicizia e qualità musicale. 

Gli Hawks lo seguirono nel 1966 in America del nord, Europa e Australia condividendo la contestazione dei fondamentalisti del folk, aiutandolo a far emergere il suono epocale di Blonde on Blonde, ridefinendo con lui i canoni della musica popolare americana essenziali non solo per i due dischi leggendari della Band, ma anche per il Dylan rurale degli album John Wesley Harding e Nashville Skyline. La Band, del resto, che suona anche in lavori sofferti del cantautore come Selfportrait e Dylan, quest’ultimo prodotto dalla Columbia con scarti di registrazioni per ripicca verso la sua scelta di pubblicare per l’Asylum Records di David Geffen l’album Planet Waves, 1974, l’ultimo in cui la stessa Band suona con lui, è l’unica formazione insieme ai Grateful Dead che può condividere con il più importante cantautore della storia la titolarità d’un disco. 

Jerry Garcia e compagni, in Dylan & The Dead, un album del 1989, riassumevano il tour omonimo negli Stati Uniti in un momento incerto della carriera di entrambi. La Band, invece, condivide con Dylan ben due (doppi) dischi di grande importanza: oltre al menzionato The Basement Tapes, il precedente (per data di pubblicazione, non di registrazione) Before The Flood. È un lavoro che riassume la tournée, quaranta date negli Stati Uniti tra il 3 gennaio e il 14 febbraio 1974, del ritorno di Dylan ai concerti dal 1966, se si escludono eventi unici come il Festival nell’isola di Wight del ‘69, sempre insieme alla Band, e il concerto per il Bangladesh organizzato da George Harrison l’anno dopo.  

Nel 1976 Manuel e Danko, che moriranno prematuramente, il primo suicida dieci anni dopo, il secondo per infarto nel 1999, hanno seri problemi di droga. “Ero arrivato al punto in cui non riuscivo più a vedere il lato positivo” ricordò Robertson anni dopo. “La strada si è presa molti dei grandi: Hank Williams, Buddy Holly, Otis Redding, Janis, Jimi Hendrix, Elvis. È uno stile di vita dannatamente impossibile”. Robbie, che era in tournée praticamente dal 1959, decide di mettere fine alla storia del gruppo là dove era iniziata, otto anni prima, con il suo nome non nome. Il 25 novembre 1976 Bob Dylan e Ringo Starr, Neil Young, Joni Mitchell, Muddy Waters, Eric Clapton, Van Morrison, Ron Wood, il poeta Lawrence Ferlinghetti e tanti altri sono un palco della Winterland Arena di San Francisco per l’ultimo concerto (Helm ricostituirà la Band nel 1983 fino al 1999, ma senza Robertson). È un evento che Martin Scorsese documenterà nel film The Last Waltz, un esempio del genere. Quando, nel 2019, Scorsese realizzerà con Robbie Robertson il documentario definitivo sulla storia del gruppo, Once We Were Brothers, dirà: “Suonava come nient’altro al mondo”.

The Weight

Il commento del regista alla scomparsa di Robbie Robertson focalizza perfettamente, invece, il significato epico della sua musica e di quella della Band: “Sembravano provenire dal luogo più profondo nel cuore di questo continente, dalle sue tradizioni, tragedie e gioie”. C’è una canzone che più di qualunque altra riassume questo senso ed è The Weight, considerata una delle più importanti nella storia della musica. 

“Liberati d’un peso, Fanny. /Liberatene in cambio di nulla. /Liberati d’un peso, Fanny /e mettilo pure su di me”. Robertson: “Ho pensato a un paio di parole che hanno portato a un altro paio. E niente: avevo composto un pezzo. Abbiamo pensato che fosse una canzone semplice, e quando è venuta fuori l’abbiamo provata e registrata tre o quattro volte. Non sapevamo nemmeno se avremmo usato la traccia”. 

Nel 1968, mentre le missioni Apollo avvicinavano la Luna, guardare al vecchio West o agli anni incerti della Grande Depressione, anche con qualche ambiguo riferimento biblico in perfetto stile Dylan, era il massimo dell’anticonformismo. In realtà anche queste relazioni rappresentano una metafora epica per celare accenni, altrimenti, assolutamente diretti.

 Robbie Robertson, in diverse occasioni, ha detto che i personaggi della canzone non erano immaginari, ma evocavano persone reali del loro vissuto. The Weight finisce quindi per rappresentare, alternativamente, l’impossibilità di condividere un peso per la diffidenza, la malafede e la rassegnazione altrui, e la possibilità di condividerlo con chi manifesta la capacità di considerare tutti gli altri. La realtà della vita quotidiana prevale sull’idealismo semplicistico del “peace and love”. La narrazione diventa quindi una preghiera laica e un manifesto della continuità della storia: il bene e il male dipendono dal cuore degli uomini.

Tre anni fa, Robbie Robertson ha suonato The Weight insieme a Ringo Starr e a musicisti di tutto il mondo nel contesto dell’iniziativa Playing For Change, che raccoglie fondi per realizzare scuole di musica destinate all’infanzia soprattutto nelle realtà povere del mondo. Senza nulla togliere alle molteplici versioni della Band, e alla straordinaria interpretazione vocale di Levon Helm, consegnate alla storia nobile della musica, se The Weight può avere un senso definitivo e universale, è quello che gli è stato dato in Playing For Change. La buona musica fa nascere, tramandandola, altra buona musica. 

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Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

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