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Sinéad O’Connor (8 dicembre 1966-26 luglio 2023).

Due ricordi speciali

Ho due ricordi speciali di Sinéad O’Connor. Il primo è un ep che comprai tra i dischi in offerta d’un negozio a Taranto un giorno alla fine degli anni Ottanta. C’era la canzone d’una colonna sonora, Jump In The River. Niente di speciale, anche se due anni dopo fu compresa nel celebrato I Do Not Want What I Haven’t Got, forse il suo disco migliore. Ad attirarmi fu la copertina grigia per metà occupata dalla foto in bianco e nero di lei, che conoscevo appena, accovacciata: il viso nascosto, la testa rasata, indosso un chiodo con i jeans neri e gli anfibi punk.

Tutta la figura aveva un non so che di tremendamente doloroso, resistente e catartico. Mi venne in mente l’estetica dei Joy Division. Quell’arte che, attraverso un’ascesi crudele e inevitabile, può riscattare sofferenze inaudite.

Il secondo ricordo è il pubblico che la fischia e le impedisce di cantare, nel 1992, durante il concerto per il trentennale della carriera di Bob Dylan dove tanti celebri musicisti e cantanti rock interpretarono una sua canzone. Kris Kristofferson, che presentava l’evento, le venne vicino e le sussurrò: don’t let the bastards let you down. Era anche il titolo d’una sua canzone contro l’America reazionaria. Quindici anni dopo, avrebbe ricordato l’accaduto in un’altra canzone: Sister Sinéad. A un certo punto dice: “Ci sono esseri umani incaricati di custodire il nostro oro /ed esseri umani incaricati della salvezza delle anime”.

La nemica dell’America

Aveva una voce straordinaria, Sinéad O’Connor, che nei suoi momenti più intensi, soprattutto all’inizio della sua parabola artistica, ti faceva sentire vera ogni parola che cantava a prescindere se fossi d’accordo o meno con i suoi personali convincimenti. Veniva fuori anche il coraggio di chi, nella vita, trova irresistibile dire la verità piuttosto che beneficiare dei vantaggi garantiti dalle vili omissioni in favore del quieto vivere.

Quando affrontò il pubblico del Madison Square Garden venuto a festeggiare Bob Dylan, la venticinquenne ragazza calva, calva perché aveva scelto di radersi a zero i capelli affinché la sua bellezza non fosse un elemento di attrazione più importante di quello che voleva cantare, si era già messa contro l’America ottusamente patriottica e ipocritamente religiosa con atteggiamenti provocatori imperdonabili.

Tutto era iniziato due anni prima con il rifiuto di far suonare l’inno americano a un suo concerto nel New Jersey. Nell’autobiografia Rememberings, pubblicata nel 2021, Sinéad spiegò che nel camerino l’avvicinarono un uomo e una donna che le chiesero come si sarebbe sentita se l’inno fosse stato suonato prima che lei cantasse. Rispose che riteneva ambigui gli inni ai concerti a meno che non li suonasse Jimi Hendrix, senza però opporsi, o impedirlo esplicitamente, come poi è stato sostenuto. Da lì l’accusa di essere “nemica dell’America”, con episodi spiacevoli come il rapper MC Hammer che si offrì di pagarle il biglietto di ritorno in Irlanda e un inaudito Frank Sinatra che minacciò di prenderla a calci nel sedere.

La replica, nell’autobiografia, fu: “Eravamo nello stesso albergo ed era preoccupante. Avremmo potuto incontrarci in ascensore e pensai che mio padre a Dublino non sarebbe stato molto contento se gli avessi detto che, per legittima difesa, avevo dovuto pestare a morte il vecchio Blue Eyes”.

 

“Combattete il vero nemico”

Il 3 ottobre 1992 Sinéad partecipò al celebre Saturday Night Live, lo spettacolo di varietà in onda il sabato sera sul network nazionale statunitense NBC dal 1975. Due anni prima si era rifiutata di parteciparvi insieme al comico Andrew “Dice” Clay a causa degli atteggiamenti xenofobi e antifemministi di costui. Quella sera è lì per presentare Am I Not Your Girl?, suo terzo album di reinterpretazioni di canzoni standard del jazz che non stava andando benissimo: il pubblico si aspettava il seguito di I Do Not Want What I Haven’t Got, non una celebrazione del suo talento.

Esordisce nella trasmissione cantando la canzone meglio riuscita del disco, la struggente Success Has Made A Failure Of Our Home di Loretta Lynn. Poi reinterpreta la canzone di protesta War, di Bob Marley, cambiando di proposito le ultime parole per riferirsi in maniera esplicita al problema della pedofilia nella Chiesa cattolica da parte di suoi esponenti americani. I “crimini enormi”, come li avrebbe definiti Benedetto XVI, all’epoca incominciavano appena a essere chiacchierati. Al termine dell’esibizione, estrae una foto di Giovanni Paolo II e la straccia in diretta televisiva affermando in maniera decisa: “Combattete il vero nemico”. Anni dopo, si sarebbe scusata con il pontefice che avrebbe accettato le scuse: non ce l’aveva personalmente con lui, ma “contro l’ingerenza della Chiesa nella vita dell’Irlanda”.

“Io volevo urlare”

Tredici giorni dopo, al Madison Square Garden per festeggiare Bob Dylan, reagisce al pubblico che non vuole farla cantare replicando il canto a cappella di War che gli autori, Allan Coe e Carlton Barrett, avevano ricavato da un discorso alle Nazioni Unite di Hailé Selassie, imperatore di Etiopia ritenuto dal popolo Rasta la seconda incarnazione di Gesù. Un passaggio dice: “E fino al giorno in cui il continente africano non conoscerà la pace, noi africani combatteremo. Lo troviamo necessario e sappiamo che vinceremo, poiché siamo fiduciosi nella vittoria del bene sul male… Ebbene, ovunque c’è guerra, io dicoː guerraǃ».

È la fine della carriera da rockstar di primo piano che, fino a quel momento, le si era implicitamente prospettata, ma che non era esattamente quello che voleva quando aveva riscattato un’infanzia e un’adolescenza sofferte, irregolari, con un talento immenso: “Quando ero ragazza non ho avuto la possibilità di fare terapia, per questo mi sono rifugiata nella musica. E visto che la musica era la mia terapia, per me è stato uno choc diventare un personaggio pubblico. Io non volevo diventare una popstar. Io volevo urlare”.

Cinque mesi fa, commentando il documentario Nothing Compares che la racconta e che veniva proiettato per la prima volta in Italia a Torino, Rolling Stone ha scritto: “Un’intera generazione è cresciuta senza avere la minima idea o sapendo pochissimo di chi è O’Connor, del perché lei (e la sua testa rasata con le quelle idee politiche esposte in modo orgoglioso e diretto) è stata importante e quali schemi musicali e culturali ha rotto. In ogni caso, ora c’è Nothing Compares a ricordarci cosa significasse fottersene della cultura pop e quale prezzo una persona ha pagato per averlo fatto”.

 

Morrissey la dice giusta (ora e per sempre)

La cosa giusta, dura e vera, inesorabile sulla morte di Sinéad O’Connor, tra le tante che spesso inutilmente intercorrono nel panorama mediatico, l’ha detta, ora e per sempre, quel geniaccio impertinente dell’ex cantante degli Smiths. Il titolo, nel suo sito internet morrisseycentral.com, sopra una foto intensa della bellissima Sinéad giovane, è:  You Know I Couldn’t Last.

Integralmente: “Aveva solo così tanto ‘sé’ da dare. Era stata abbandonata dalla sua etichetta discografica dopo che aveva fatto vendere 7 milioni di dischi. Era ammattita, d’accordo, ma non aveva smesso d’essere interessante. Non aveva fatto niente di male. Era orgogliosamente vulnerabile …e c’è un certo odio dell’industria discografica verso quei cantanti che non si adeguano (lo so fin troppo bene), e non sono riconosciuti finché muoiono – quando finalmente non possono replicare.

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Il crudele circoletto dei famosi profonde elogi per Sinéad oggi… con i soliti idioti appellativi di ‘icona’ e ‘leggenda’. La esaltate ora SOLO perché è troppo tardi. Non avete avuto il coraggio di sostenerla quando era viva e vi cercava.

La stampa qualifica gli artisti come scocciatori a causa di quello che rifiutano … e di Sinéad hanno detto che era triste, grassa, scioccante, folle … Oh, ma non oggi!

I dirigenti discografici che avevano sfoggiato il loro sorriso più affascinante quando l’hanno rifiutata tra gli artisti del loro elenco fanno la fila per definirla ‘icona femminista’, e celebrità di 15 minuti e maligne creature dell’inferno ed etichette discografiche dalla diversità artificialmente suscitata si spremono su Twitter per comunicare il loro chiacchiericcio elogiativo … quando siete stati VOI a convincere Sinéad ad arrendersi … perché si rifiutava di essere etichettata, ed era stata messa da parte, come sono sempre messi da parte quei pochi che cambiano il mondo.

Come può essere che QUALCUNO sia sorpreso dalla morte di Sinéad O’Connor? A chi importava abbastanza per salvare Judy Garland, Whitney Houston, Amy Winehouse, Marilyn Monroe, Billie Holiday? Dove andare quando la morte può essere la più facile via d’uscita? Questa follia musicale valeva la vita di Sinéad? No, non la valeva.

Lei era una sfida, non poteva essere ingabbiata e aveva il coraggio di parlare quando tutti gli altri restavano in silenzio per non avere problemi. È stata tormentata solo perché era se stessa. I suoi occhi finalmente si sono chiusi alla ricerca di un’anima che fosse come lei.

Come sempre, quelli del giro giusto non focalizzano il punto e con le mascelle serrate tornano a ripetere gli sciocchi e insultanti epiteti ‘icona’ e ‘leggenda’ quando la scorsa settimana parole molto più crudeli e sprezzanti avrebbero funzionato. Domani i fottuti adulatori torneranno ai loro cessi online e alla loro comoda Cancer Culture (gioco di parole con ‘cancel culture’, nda) e alla loro superiorità morale e ai loro necrologi di vomito a pappagallo… Tutto ciò vi sorprenderà a mentire in giorni come oggi… quando Sinéad non ha bisogno del vostro sterile sbavare”.

La leggiadra coerenza

Il documentario Nothing Compares, il cui titolo personalizza l’altro titolo della canzone che è notoriamente stata il suo maggiore successo, Nothing Compares 2 U, un oscuro scarto di Prince che la sua interpretazione ha trasformato in una eccezionale hit di successo, racchiude abbastanza della sua personalità. I cui dolori, uniti alle contraddizioni, eccessi, vizi, drammi, tutti però riconducibili, soprattutto negli anni giovanili, a una leggiadra e tormentata coerenza, sono l’altra faccia d’un talento mai completamente espresso.

Il principale aspetto di questa coerenza è stata la sua lotta al patriarcato, degenerazione del cattolicesimo popolare irlandese che era nelle sue radici esistenziali e psicologiche. Una lotta attuata, spesso istintivamente, con una determinazione che, ad esempio, la indusse a resistere e a portare a termine, giovanissima, la prima delle sue quattro gravidanze durante la realizzazione del suo primo eccellente album, The Lion And The Cobra, nonostante i referenti dell’industria musicale facessero pressioni su di lei affinché abortisse.

La lotta alla pedofilia su cui la Chiesa, in seguito alle pressioni dell’opinione pubblica, si è assunta le sue responsabilità, il movimento Mee Too contro le molestie sessuali, confermano che gli argomenti di protesta di cui Sinéad ‘Connor si rese interprete negli anni Novanta erano delle giuste ragioni. In Rememberings lei ha scritto che l’esilio, che ha portato a sottovalutare il suo quarto, buon album, Universal Mother, seguito da prove meno convincenti ma sempre con bagliori del suo talento, le ha fatto bene perché l’ha liberata dalle costrizioni della cultura musicale mainstream. Ma altre morti, nella storia del rock, ci dicono anche che ha ragione Morrissey: serve a poco dire quanto valevi se te lo dicono quando non ci sei più.

Resta il valore di quello che è stato fatto: un piccolo, grande tesoro che le giovani generazioni, prive di riferimenti, potranno, con il tempo, andare a riscoprire.

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Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

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