serge gainsbourg

In una fredda Parigi alla recherche del museo (perduto?) di Serge Gainsbourg

François Mitterand lo incoronò come colui “che elevò ad arte la canzone” spendendo un paragone con Apollinaire e Baudelaire per questo indimenticabile poeta dell’effimero. Sylvie Simmons gli dedicò la bellissima biografia Serge Gainsbourg: a Fistful of Gitanes e ne definì la gigantesca, disarmonica e asimmetrica creatività come “via di mezzo fra Charles Bukowski e Barry White, Jim Morrison e Leonard Cohen, Scott Walker e Chet Baker”. Difficile dire di più.

Serge Gainsbourg: l’artista e il personaggio

Oltraggioso, fuori posto e sempre al centro della scena, Gainsbourg ebbe in dono una vena creativa fertilissima, discontinua e smisurata, pari soltanto alla sua tendenza all’eccesso. Ancora oggi è ben difficile condensare in un giudizio chi e cosa fu Serge Gainsbourg. Bulimico di arte, vita, sesso, alcol e sigarette, fu meteora esplosiva nell’Italietta di fine anni Sessanta per via dello scandaloso duetto con Jane Birkin (ah, ingenuità dei tempi andati…), Je t’aime… moi non plus: non troppo oltre si è spinta, negli anni, qui da noi, la curiosità per questa favolosa creatura musicale.

Il pezzo, si sa, era stato scritto per (e con) Brigitte Bardot, che nel frattempo aveva lasciato Gainsbourg a piangere amare lacrime di solitudine (la registrazione con BB, del 1967, sarebbe uscita soltanto nel 1986). Dal tanto, e ingiusto, dolore di Serge, la coppia neo formata avrebbe visto sgorgare il celebre duetto e con esso un dono ineguagliabile, quello della scomunica papale. Jane Birkin avrà poi mille volte ragiona a dire come il papa fosse stato il loro miglior ufficio stampa. Fu il successo planetario.

Verso il Museo Gainsbourg, ma poi…

Sempre al di là del confine di ogni genere musicale, indefinibile per definizione, Lucien Ginsburg, figlio di immigrati ucraini, in arte Serge Gainsbourg, muore stroncato da un infarto nella sua casa parigina il 2 marzo 1991, sessantaduenne, dopo anni in cui aveva iniziato, neppure troppo lentamente, a farsi morire. Adesso che le stanze leggendarie di rue de Verneuil si aprono e si fanno museo, quale migliore occasione, per chi passa da Parigi (guidato dal caso, dal lavoro o dalla fortuna) per rendergli omaggio?

Non resta allora altro che buttare un’occhiata distratta al sito web della maison Gainsbourg, il quale annuncia a gran voce le meravigliose esperienze, solide e immersive, che saranno premio alla visita duale in rue de Verneuil, ai numeri 5 e 14. Via di corsa, quindi. Se poi per caso vi trovate, che so, dalle parti dell’Île de la Cité, il gioco è dei più semplici.

Basta fare un salto di là dalla Senna, salutare al volo gli scaffali della Shakespeare & co e correre (per il freddo) sulla rive gauche del fiume, gremita di bancarelle in ferro verde stracolme di libri per poi, poco dopo il Pont des Arts, prendere a sinistra, penetrare – Serge apprezzerebbe – il ventre del Quartiere Latino, e precipitarsi in rue de Verneuil. Eccoli lì, al n. 5 e al n. 14, casa e museo, ad un tiro di schioppo. Li troverete subito. E li troverete chiusi.

Sarà stata la fretta (forse), sarà stata la poca chiarezza del sito della maison Gainsbourg (di certo), ma attorno alla casa di Serge, al n. 5, vi attenderanno i ben noti graffiti del suo indimenticabile volto, al n. 14, un bandone abbassato e nulla più. Ma chi scrive è inguaribilmente ottimista, per cui, sì, ne è valsa ugualmente la pena. Perché, lo sappiamo, prima o poi la maison di Serge e il museo annesso apriranno; perché vedere, anche solo da fuori, la casa che abitò dà i brividi (e non tutti di piacere); e perché averlo inseguito per Parigi e non averlo trovato ci fa sorridere e ci pare la metafora di quel grande indefinibile, e, alla fine, imprendibile, che egli fu.

Visto che il museo ancora non c’è, perché non riascoltare un paio di dischi di Serge Gainsbourg?

Premio di consolazione tutt’altro che misero, tornare ad ascoltarlo di nuovo. Se lo avete amato e avete frequentato i suoi infiniti meandri, non avete che da pescare a caso nel suo magico cappello. Se vorrete avvicinarvi a lui, chi scrive, deluso ma non domo dalla visita negata alle sue stanze, volentieri dispensa due consigli per iniziare, due album che più lontani non potrebbero essere.

Il primo, Histoire de Melody Nelson, del 1971. Bislacco concept album che ha come protagonisti Serge e Jane, tamponata quest’ultima in bicicletta da Serge con la sua Rolls Royce (che bramò e infine comprò senza aver patente e senza saper guidare). Metafore a parte, appena 28 minuti di musica, densi e potenti, elettrici, da restare lì, appesi. I due ne trassero un video per ogni brano e ne venne fuori, a posteriori, un piccolo musical a puntate e una colonna sonora di spaventosa bellezza.

Il secondo, Love On the Beat, del 1984. Album controverso e disturbante, penultimo di Gainsbourg, ricco di sonorità dance, funk, rock, sintetiche. Se ne fece un gran parlare, soprattutto per la scandalosa Lemon Incest, cantata in duetto con l’adolescente figlia Charlotte. Svanite le chiacchiere, Love On the Beat resta la prova di una vitalità prorompente e disordinata che sapeva camminare sui cocci di vetro e finanche l’immondizia traendone perle purissime, come la splendida Sorry Angel, che ancora capita di veder tatuata sui muri parigini. Serge non sarebbe uscito vivo dagli anni Ottanta e già in quel 1984 aveva iniziato a morire. A poco più di trent’anni dalla sua scomparsa, proviamo a ricordarlo per quell’enorme dono che ci ha fatto: essere Serge Gainsbourg, sempre.

 

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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