Death of a Lady’s Man

Gli otto anni in cui Leonard Cohen perse se stesso (e il Québec): in ginocchio davanti ad un ruscello

Quando il 16 ottobre 1970 i militari del primo ministro Pierre Trudeau spezzano le ali fragili del sogno autonomista del Québec, la carriera musicale di Leonard Cohen ha da poco iniziato a prendere il volo. Songs From A Room si è piazzato al secondo posto nelle classifiche inglesi. Il canadese Leonard, senza troppo entusiasmo, si è fatto convincere ad imbarcarsi, soltanto qualche mese prima, in un tour europeo che lo porterà, assonnato e di malavoglia, a calpestare il palco dell’Isola di Wight all’alba dell’ultimo giorno del festival.

Il 31 agosto 1970 Cohen ipnotizza un pubblico stanco e distratto da tre giorni di fiori, amore e pessime droghe con una performance storica. Uscito soltanto nel 2009, Live At The Isle Of Wight (1970) dispiega a pieno il carisma di questo menestrello ricolmo di spiriti francesi ma arrivato dal freddo Canada.

Nel frattempo, letteralmente ad un passo da casa Cohen, si sta consumando il dramma della fine del sogno autonomista del Québec. Il meccanismo soffice della quiet revolution si è inceppato, le aspirazioni libertarie della popolazione francofona, largamente maggioritaria, hanno iniziato ad affondare. Le avvisaglie di una violenta involuzione repressiva si sono manifestate pienamente con la protesta studentesca della sir George Williams University di Montréal, che si conclude l’11 febbraio 1969: 97 studenti arrestati cui farà seguito il reintegro in cattedra, per quanto momentaneo, del professore razzista Perry Anderson.

La fine dell’età dell’Acquario è nell’aria. Mentre Cohen raccoglie, anche in Europa, i frutti di notorietà dei suoi due primi lavori Songs Of Leonard Cohen (1967) e Songs From a Room (1969) e si appresta a Songs Of Love And Hate, il terzo capitolo del canone che vedrà la luce nel maggio del 1971, il cuore del Canada, del suo Canada, cade a pezzi, senza fare alcun rumore o quasi, in una Europa distratta da ben altro a cui pensare.

1970-71

Il 5 ottobre 1970 la formazione marxista-leninista del Fronte di Liberazione del Québec sequestra il diplomatico britannico J. R. Cross, che abita nell’enclave anglofona di Montreal, Westmont, proprio come l’intellettuale ebreo Leonard Cohen. Il 10 ottobre viene sequestrato e poi ucciso il ministro del lavoro laburista Pierre Laporte. Il 12 ottobre Trudeau invia l’esercito ad Ottawa ed il 16 ottobre 1970 vara il war measures act. Le conseguenze sono immediate: stato di guerra, 3000 fra fermi ed arresti, la sospensione di fatto delle libertà individuali. Il Fronte di Liberazione del Québec verrà liquidato in breve, ma la democrazia canadese pagherà un prezzo elevato con una ferita ed trauma civile di portata storica. Questo soffice colpo di stato, che si realizza nell’indifferenza, fuori dal Canada, di quasi tutti, si imbatte nel silenzio dei più, anche, a quanto ne sappiamo, dello charmant Leonard.

Cohen al tempo è uno scrittore brillante, che in patria incontra l’attenzione e il favore della critica. La sua prima raccolta di poesie Let Us Compare Mythologies risale al 1956, del 1963 è il primo romanzo Il Gioco Preferito, del 1966, il secondo, più maturo, Belli e perdenti: prove narrative che un po’ scandalizzano per le diffuse ed esplicite scene di sesso, ma son benedette dai critici à la page. Sempre del 1966 la raccolta di poesie, assai rilevante, Parasites Of Heaven.

Beautiful Losers

Dal 1967, la produzione letteraria di Leonard Cohen non cessa, ma subisce un rallentamento, si dirada e si fa riconducibile prevalentemente alla poesia. Colpisce inoltre, negli anni immediatamente seguenti, che  lo scrittore non prenda posizione sui sempre più cupi orizzonti del Québec, non usi la spada della letteratura a difesa di compagni e amici, non si spenda contro la macelleria democratica che sta scuotendo il suo paese. Mentre il suo Québec affonda, Leonard tace e intona, uccello sul filo dell’alta tensione politica, il suo canto più melodioso, offrendosi al mondo della musica. Silenzio che sconcerta. A prima vista, almeno. “Magnifico spettacolo un uomo che sa dove sta andando”, canta Cohen, ma Leonard è un uomo, non un personaggio delle sue canzoni, e quel che ha da offrire è solo lo spettacolo dei propri limiti.

Però, a nostro avviso, c’è un più complesso e doloroso ‘però’, che va cercato sotto le spoglie del simbolismo poetico, e che, se interrogato, risponde forte e chiaro nella poesia Caddi in ginocchio davanti a un ruscello (I Knelt Beside a Stream, nella raccolta Morte di un Casanova del 1978), e che ancora più forte echeggia nella notazione di diario che Cohen affianca alla poesia, che in qualche modo la espande e la spiega (non perdano i cultori, l’occasione ghiotta del confronto fra la notevole raccolta poetica Death of a Lady’s Man ed il discusso, omonimo album realizzato dal canadese con Phil Spector, in un’atmosfera da incubo).

Caddi in ginocchio davanti a un ruscello

 Caddi in ginocchio davanti a un ruscello che era comparso su un parquet tirato a lucido in un appartamento che dava su Central Park. Uno scudo piumato mi fu agganciato all’avambraccio sinistro. Un elmo piumato mi fu calato sulla testa. Fui investito dalla missione di proteggere l’orfano e la vedova. Il che mi fece sentire così bene che mi arrampicai sul letto a due piazze di Alexandra e piansi in linea generale per il destino degli esseri umani. Poi la seguii nel bagno. Sembrava diventare d’oro. Stava davanti a me enorme come il guardiano di un porto. Come avevo mai pensato di dominarla? Con una mano di cromo e un’immensa sigaretta Gauloise mi consigliò di arrendermi e di venerarla, cosa che feci per dieci anni. Cominciò così l’osceno silenzio della mia carriera di casanova.

 Leonard Cohen Poesie / 3Morte di un Casanova, minimum fax, 2021

Questa poesia ci pare non soltanto il sismografo di un trauma, storico e individuale, ma si colloca al cuore dell’esperienza umana e poetica di Cohen, trauma che verrà elaborato con fatica, per approssimazioni successive e per cerchi temporali concentrici.

Su quel trauma, al quale se ne somma uno più intimo, interiore, non ci informano, a quanto sappiamo, prove e documenti, ma molti, suggestivi, convergenti indizi a livello poetico. Nell’appunto di diario che Cohen pubblica a specchio della poesia Caddi in ginocchio davanti a un ruscello e che ne rappresenta lo spunto biografico di abbrivio, leggiamo: “Ora sono disteso in una pozza di grasso e al cospetto delle margherite mi vergogno di ciò che sono. Otto anni fa, e poi l’osceno silenzio della mia carriera”. L’appunto, ricorda Cohen nella breve introduzione, fa parte di una più lunga annotazione di diario, scritta nella primavera o estate del 1975. Cosa era dunque accaduto, otto anni prima? Se corriamo otto anni indietro, il calendario si ferma al 1967; ci imbattiamo così nella svolta epocale della vita professionale di Cohen: ha inizio ufficialmente la sua carriera di dotato e ammaliante chansonnier, una carriera di Casanova, vezzeggiato e corteggiato dalle donne e sempre più blandito da ammiratori e discografici, che si inaugura con Songs of Leonard Cohen.

Il silenzio cui Cohen allude nella nota non è dunque un silenzio assoluto, ma piuttosto il consapevole e tutt’altro che ingenuo dar fiato alla vena di autore e cantante, che sarà florida, duratura ed economicamente ben più remunerativa della scrittura, mettendo la sordina alla tromba sperimentale e dissacrante del poeta e del romanziere, e, con essa e prima di essa, al ruolo e alla responsabilità di intellettuale canadese.

Un intellettuale che vede e sa vedere, che può essere testimone del proprio tempo di crisi e del macello della propria generazione, bella e perduta. Uno scrittore che assiste impotente cadere e marcire i fiori spensierati dell’isola greca di Hydra. Che sente il rumore sordo e sempre più vicino della brutale reazione di un mondo che non accetterà di esser cambiato e che si prenderà la più crudele delle rivincite versando il sangue della democrazia del Québec in una macelleria istituzionale dalla lunga eco.

Il Macellaio

Mi sono imbattuto in un macellaio,
stava massacrando un agnello,
l’ho accusato proprio lì
con il suo agnello torturato
Mi disse, “Ascoltami, figliolo,
sono quello che sono
e tu, tu sei il mio unico figlio.”

Songs for a Room, 1969

Si è figli dei macellai, si è come loro, anche se si accusano.

Cohen

Quegli otto anni sono gli stessi in cui la sua generazione di poeti e sognatori esce sconfitta dalla storia. Continua Cohen nella nota di diario: “i macellai davano la scalata al trono, e strappavano il velo a colpi di mannaia, e se ne stavano ritti davanti a noi sogghignando, senza nemmeno prendersi il disturbo di coprirsi”.

Colui che accanto al ruscello (ma tradurre stream con flusso ci sembra preferibile), come un cavaliere di un vecchio libro d’avventure, aveva messo lo “scudo piumato al mio avambraccio”, aveva sentito calare “un elmo piumato sulla mia testa” ed era stato “investito dall’alta missione di proteggere”  i “deboli” e gli “orfani”, corazzato nella mente, nel braccio e nel volto, infrange il patto: non narra, non racconta, non denuncia, canta e suona. Si perde, sul grande, smisurato letto a due piazze del piacere, ai piedi di Alexandra, nel corso di “una notte in cui piansi per l’ingiustizia del mondo”, nella solitudine del sesso, in un lago di compiaciuta autocommiserazione, mille miglia lontano dall’incendio collettivo della politica.

Durissimo il bilancio della propria vicenda umana e artistica: “strinsi un patto con quelli che guardavano, ma lo infransi sotto tortura. Fui diviso in tre parti. Una fu data a una moglie, una al denaro, una alle margherite”. I pezzi di Cohen se ne vanno all’amore, al denaro e alle lievi margherite della creazione musicale, ma non alla terra desolata degli uomini. Così il mondo compra e paga i suoi otto anni di silenzio “osceno”, il suo patto, occulto ma non meno d’acciaio, con i macellai del potere.

In Last Year’s Man, vetta che spicca fra le canzoni di odio e amore del 1971, e che si colloca temporalmente giusto pochi mesi dopo i fatti dell’ottobre 1970, aleggia il senso lugubre di una sconfitta individuale e storica:

L’Uomo dell’anno passato

 La pioggia cade sull’uomo dell’anno passato
C’è uno scacciapensieri sul tavolo, c’è un pastello nella sua mano
Ed i lati del progetto si son rovinati rotolando
Così lontani dalle puntine che ancora gettano le ombre sul legno
E il lucernario è come la pelle di un tamburo che mai riparerò
E tutta la pioggia cade giù, amen, sulle opere dell’uomo dell’anno passato
 
Incontrai una donna, stava giocando coi suoi soldatini lì nel buio
Oh, dovette dir loro uno ad uno che si chiamava Giovanna d’Arco
Son stato in quell’esercito, sì – stetti lì per un pochino
Vorrei ringraziarti, Giovanna d’Arco, per avermi trattato così bene
Ed anche se indosso un’uniforme, non sono nato per combattere
Tutti questi ragazzi feriti accanto cui ti stendi – buonanotte, amici miei, buonanotte
[…]
La pioggia cade su l’uomo dell’anno passato
È passata un’ora e non ha mosso la mano
Ma tutto succederebbe se solo pronunciasse la parola
Gli amanti si alzerebbero e le montagne toccherebbero la terra
Ma il lucernario è come la pelle di un tamburo che mai riparerò
E tutta la pioggia cade giù, amen, sulle opere dell’uomo dell’anno passato

Songs of Love and Hate, 1971

Leonard Cohen

Non può non colpire come, rispetto alla levigata interiorità del disco d’esordio, i due album successivi portino le tracce, ben più evidenti e ben più corrugate, delle pieghe e delle piaghe dolorose della storia. Vi si aggirano eserciti, militari, vergini guerriere, uomini dell’anno prima in uniforme ma inabili alla battaglia. I riferimenti alla semantica della guerra, del conflitto, dello scontro, si fanno, sia pure sotto la forte patina di simbolismo poetico, presenti e insistenti.

Ma è nell’appunto del 1975 che la sconfitta di questa guerra non guerreggiata è beffardamente confessata: “Battaglie lontane, mi direte. […] E siete i vincitori. Siete le guardie. E persino i macellai sopra di voi non hanno il comando”.

Se questa lettura ha un sia pur parziale fondamento, viene da chiedersi quale sia il motivo profondo della diserzione, del silenzio dell’intellettuale, del dedicarsi al più facile commercio della musica, da parte del promettente scrittore Leonard Cohen.

Siamo convinti che una chiave, a livello poetico e simbolico, ma anche politico, debba essere cercata nella canzone The Partisan. Un canto, sì, della Resistenza francese, contro l’oppressione dell’occupazione nazista, Le complainte du Partisan, parole di Emmanuel d’Astier de La Vigerie e musica di Anna Marly, anno 1945. Non certo farina del sacco di Cohen, lo si sa. Cohen però se ne riappropria, con uno straordinario e obliquo colpo di originalità, rispetto anche al fortunato adattamento inglese fattone da Hy Zaret: incide e canta la canzone per metà in francese e per metà in inglese. Simbolo di una doppia appartenenza linguistica e culturale. Simbolo di una duplice, e crediamo, non pacifica, identità (la Francia, ricordiamo, sosteneva le aspirazioni autonomistiche del Québec in seno al Canada anglofono membro del Commonwealth).

 

The Partisan

[…]

I tedeschi sono stati a casa mia
mi hanno detto “Arrenditi”
ma non l’ho fatto
ho ripreso la mia arma
ho cambiato nome un centinaio di volte
ho perduto donna e bambini
ma ho molti amici
e ho la Francia intera

[…]

 [strofe cantate in francese]

Songs for a Room, 1969

 

Cohen, non va dimenticato, è un ebreo benestante di Westmont, vive nel cuore della capitale del Québec, ma in un’enclave borghese ed anglofona. Cohen parla e scrive in inglese, l’inglese è la sua lingua d’arte e di comunicazione. I sommovimenti del Québec devono averlo lasciato, ci viene da argomentare, spiazzato, o se non altro diviso, fra due mondi, tra due diverse culture. Nel suo petto battono due cuori. La conseguenza, ci viene da concludere, è lo stallo, l’impasse, il silenzio, davanti al procedere e poi al crollare di una rivoluzione quieta che, passata per le armi e coloratasi del sangue dell’omicidio politico, cade sotto i colpi dei macellai dell’esercito e della politica del governo canadese.

Cohen non abbandonerà affatto la scrittura, ma scarterà di lato rispetto alla strada dell’engagement, dello scrittore calato a piene mani nell’attualità politica del proprio tempo. La violenza verbale e di immagini che deborda dalla nota di diario acclusa a Caddi in ginocchio davanti a un ruscello suggerisce l’elaborazione faticosa di un trauma mai del tutto metabolizzato, tanto più visibile nell’appunto di diario che non nella poesia, più sintetica, allusiva ed omissiva. Un trauma pubblico: tacere davanti alla sconfitta della propria generazione e della marcia di autonomia del Québec. Un trauma privato: spuntare la penna affilata dell’intellettuale e imbracciare una chitarra. Per fama, donne, soldi. Per vanità.

Otto anni di osceno silenzio e di splendide canzoni avranno da passare prima che, al di là delle cupe increspature dei testi che abbiamo ricordato, Cohen arrivi, nel 1975, ad una impietosa elaborazione di un dolore che, ci sentiamo di dire, è personale, ma che è anche pubblico, di un’intera generazione e di un Paese violato. E lo farà attraverso l’impietosa personificazione di sé nella figura per eccellenza della dispersione nel piacere, nell’egoismo e, infine, nella solitudine: Casanova.

Ed è forse, ci sentiamo di azzardare, proprio questa valanga di dolore accumulata ad agire in profondità nell’anima di Leonard Cohen, a farsi dirimente per la sua carriera, non di libertino, ma di artista. Il vezzeggiato, bel Leonard non sarà più, dopo il 1967, soltanto o prima di tutto scrittore, preso nell’onda di piena del proprio tempo, ma proprio in grazia di quegli otto anni di osceno silenzio, e dei molti che dopo verranno, si vestirà delle penne screziate di inimitabile e ineguagliato colore di un bird on a wire sempre in bilico sul filo della vita.

Valanga

 Mi sono imbattuto in una valanga,
ha ricoperto la mia anima;
quando non sono questo gobbo che vedi ora,
dormo vicino a una collina d’oro.
Se desideri conquistare il dolore,
devi imparare, imparare a servirmi come si deve.
 
Hai colpito il mio fianco per sbaglio
mentre ti inabissavi per seguire il tuo oro.
Lo storpio che vesti e sfami
non sta morendo né di fame né di freddo
non ha bisogno del tuo conforto,
non quando si trova al centro, al centro del mondo.
 
Quando sono su un piedistallo,
so che non mi ci hai messo tu.
Le tue leggi non mi obbligano
ad inginocchiarmi grottesco e nudo
Sono io stesso il piedistallo
di questa schifosa gobba che stai guardando.
[…]
 

Songs of Love and Hate, 1971

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Ragazzi di provincia, consapevoli divoratori di musica, libri e concerti, si ritrovano a perseguire con devozione e puntiglio l'esigenza di gettare lo sguardo e la penna oltre il comune. TomTomRock è la finestra ideale da cui far entrare, uscire e precipitare una spudorata e molto scorretta curiosità. 

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