Un’intervista con Ezio Guaitamacchi, autore di Amore, Morte & Rock ‘N’ Roll.
In “Brother Ray”, la sua autobiografia, Ray Charles racconta come lui, il pilota e un giornalista che continuava a pregare la Madonna siano sopravvissuti a un’avaria del suo jet personale grazie a un atterraggio di fortuna. Purtroppo, nella storia dello show business, altri non hanno avuto la stessa sorte in circostanze simili. Nell’agosto del 1990 l’elicottero di Stevie Ray Vaughan si è schiantato contro una collina del Wisconsin. Nell’ottobre del 1977 era toccato all’aereo con a bordo i membri della rock band sudista Lynyrd Skynyrd di precipitare al confine tra Mississippi e Louisiana. E ancor prima, nel dicembre del 1967, aveva perso la vita in maniera analoga il re del soul Otis Redding . Un mezzo di trasporto diverso, l’automobile, causa o accompagna la morte di Marc Bolan, di Bon Scott degli AC / DC e della leggenda del country Hank Williams.
Nel libro “Amore, Morte & Rock ‘N’ Roll. Le ultime ore di 50 rockstar: retroscena e misteri”, uscito a fine 2020, Ezio Guaitamacchi ci propone un’accuratissima casistica sulle ore fatali della dipartita di 50 grandi protagonisti del rock e sul lungo percorso che ha condotto alla loro tragica fine. Naturalmente non possono mancare gli eccessi e gli stravizi di chi ha voluto vivere alla grande, a una velocità diversa rispetto alla gente comune. Come spiegare altrimenti le stranezze e la grandiosità dei personaggi descritti, davvero troppi da citare, da Jim Morrison a Aretha Franklin ad Amy Winehouse e tanti altri ancora?
Guaitamacchi ha il pregio di non glissare sulle teorie complottiste, che invariabilmente trovano terreno fertile nella narrativa dedicata ai divi della nostra epoca. Esse sono parte irrinunciabile della mitologia rock e del mistero che circonda le sue vittime sacrificali. Jimi Hendrix si è veramente suicidato? Di che cosa sono morti veramente Elvis Presley e Michael Jackson? Qualcuno può aver “aiutato” Brian Jones ad affogare nella sua piscina? Risposte non ce ne sono, ma i retroscena li troverete ben descritti in “Amore, Morte & Rock ‘N’ Roll”. È dunque un vero un piacere scambiare due chiacchiere su Zoom con l’autore a proposito dell’avvincente mondo del rock.
Ezio, un’impressione che si ricava leggendo il tuo libro è che l’ambiente discografico sia un posto pericoloso. Se ne incontrano parecchi di manager che poi ti rovinano o cercano di farti fuori.
Non direi che è un ambiente pericoloso. La cosa sicura è che quell’ambiente, in particolare fino a 10-15 anni fa, si trovava molto sotto i riflettori, un po’ come il calcio oggi, dove le magagne si vedono quasi subito. Più i riflettori sono supportati dalla tecnologia più sei fottuto. Riguardo al discorso della malgestione e delle vicende truffaldine, pur essendo un appassionato non mi occupo professionalmente di sport, ma so che anche nello sport più educato che ci sia e che io pratico, cioè il tennis, ci sono un sacco di porcherie. Purtroppo quello che è degradato è l’animo umano, non tanto il mondo della musica o degli artisti. Gli artisti, questo è sicuro, sono persone – lo descrive bene nella presentazione del libro Enrico Ruggeri – che hanno un’insicurezza, o meglio una sensibilità superiore alla media. Per cui fanno fatica a trovare un equilibrio, anche perché il successo è una brutta bestia da gestire. Uno dei protagonisti del mio libro, il grande rocker americano Tom Petty, ha fatto una canzone bellissima che secondo me è emblematica da questo punto di vista. Si chiama Learning To Fly, imparare a volare. Il testo dice “sto imparando a volare anche se non avrò mai le ali”. Ma la cosa più difficile è atterrare.
Nel brano The Day John Kennedy Died volutamente Lou Reed mescola la narrazione dell’omicidio Kennedy con quella dell’omicidio di John Lennon. Contrariamente a quanto dice la canzone, nessuna partita di football americano fu interrotta per dare la notizia in TV dell’uccisione del presidente. Cosa che invece accadde in occasione dell’attentato a John Lennon. Da Dime Store Mystery a Songs For Drella a Magic and Loss, a suo modo Lou Reed rielabora il tema della morte. Tu gli dedichi molte pagine iniziali del tuo libro. In che modo ti ha ispirato la figura di Lou Reed?
Lou Reed è sempre stato il terrore dei giornalisti. Era uno molto molto smart, volutamente un personaggio ostico, difficile. Fortunatamente, forse per una certa empatia, ho sempre avuto un ottimo rapporto con lui, anche perché lui scherzava sul mio nome Ezio, perché era il nome di battesimo di un grande cantante lirico che si chiamava Ezio Pinza di cui ignoravo l’esistenza. Era un italo-americano che aveva successo in America ma non Italia per cui tutte le volte che ci rincontravamo io dicevo a Lou “ti ricordi di me”, e lui diceva “come potrei dimenticarmi di te, Ezio come Ezio Pinza”, nome che Lou Reed pronunciava in un modo tutto suo. Al nostro terzo incontro ho cominciato a chiedermi “ma chi cazzo è ‘sto Ezio Pinza?”. Se il libro che ho scritto si chiama “Amore, Morte e Rock’n’roll”, non è soltanto per rifare il verso alla cosiddetta triade di noi ragazzi degli anni settanta “sex, drugs & rock’n’roll”. Ma perché ho parlato con Laurie Anderson, dopo la morte di Lou Reed, avendo io avuto con lei molte più frequentazioni che con lui. L’ho sempre adorata sia come musicista che come persona. E non ho mai capito la loro strana coppia. Lei post-mortem mi ha rivelato alcune cose. Per esempio mi ha rivelato un lato dolce, romantico di Lou Reed che per la verità non avevo mai colto, ma io Lou Reed l’ho sempre visto davanti a me dove magari io avevo una telecamera, dovevo fare un’intervista per la televisione e lui era l’intervistato.
Ma che cosa ha contribuito a creare tra te e Lou Reed quel clima di intesa?
Una volta mi ricordo che lui fece un disco live, una sorta di unplugged con una chitarra acustica di liuteria, una di quelle che usava anche James Taylor, che non ho mai avuto la fortuna di poter provare, per cui mi ricordo che prima dell’intervista chiacchierando gli avevo chiesto “com’è?”, e lui era rimasto sorpreso, “ma la conosci?”, “guarda, la conosco, ma non l’ho mai suonata” gli dissi. E sai, tra “musicisti” si parla la stessa lingua. E poi lui aveva questa passione – e la metto anche nel libro – per il tai chi. Sono stato parecchie volte in America, in particolare in California. A San Francisco il sabato mattina nella zona di North Beach c’è una chiesa con un grande piazzale dove, non chiedermi perché, c’è una tradizione di gente che pratica il tai chi. Ti parlo di 20-30 anni fa. Roba che all’epoca non sapevo nemmeno che cavolo fosse, però faceva scena. Per cui c’erano tutte queste piccole cose che potevo condividere con Lou Reed. Mentre con Laurie c’è stata molta frequentazione. Con lei è venuto fuori proprio il discorso della morte, parlando di lui, e lei mi disse “sai, per me la morte” – e lo scrivo anche nel libro – “è un modo per renderci conto di quanto amore abbiamo provato per la persona che non c’è più”. Ed è lì che è venuto fuori il discorso del libro. Perché pensavo a loro due, la coppia strana, però una grande storia d’amore. Ho riflettuto su tutte queste storie che racconto, dove ci sono morti violente, morti misteriose, però ci sono anche morti come quella di Lou Reed per cause naturali ma che sono morti, passami il termine, romantiche. O altre che sono artistiche.
Pensa a David Bowie. O altre anche tragiche, pensa a Lennon, dove però le donne importanti della loro vita erano lì. Yoko, la donna più odiata della storia del rock, è lì che tiene il marito morente tra le braccia. Laurie accompagna suo marito, la quintessenza della “urban culture” su una spiaggia all’estremità di Long Island tra le onde in mezzo alla natura. Leonard Cohen che si rincontra (epistolarmente) con Marianne. David Bowie che ha fatto di tutto con donne e uomini e si lega per vent’anni con una grande modella che diventa sua moglie, la mamma di sua figlia e rimane lì per lui. È per questo che tengo a sottolineare il fatto che questo libro racconta ovviamente le ultime ore, quindi a volte appunto finali tragici, finali misteriosi, a volte criminosi – Marvin Gaye, Sam Cooke, tutti quelli che vuoi tu – però con sempre un occhio attento all’aspetto dell’amore, là dove c’è, oppure paradossalmente là dove non c’è. Finali malinconici, di solitudine: Janis muore da sola, Amy Winehouse, la malinconia di ragazze o di uomini come George Michael. Gente che non ha avuto, come dire, dentro di sé la consolazione o addirittura, se vuoi, la spiritualità come nel caso di Lou Reed o di chi ci crede, di avere mano nella mano nel momento del trapasso la persona che ti vuole bene. Quindi il caso di Lou Reed io lo vedo in questo modo e l’ho voluto raccontare attraverso gli occhi e le testimonianze di lei. Così come ho cercato di sottolineare la solitudine in altri casi che è quasi un complice del “delitto”, di Amy Winehouse, di Dolores O’Riordan, persone che, pur se apparentemente avevano un compagno o un marito e figli o mogli, erano però sentimentalmente sole. E quindi questo aspetto ho cercato di valorizzarlo, insomma di sottolinearlo perché è parte della storia, di quelle ultime ore ed è anche parte secondo me della magia artistica di questi personaggi che anche negli ultimi momenti quando diventano dei comuni mortali, un secondo dopo sono già di nuovo immortali perché le loro opere resteranno per sempre.
Tu parli di Lou Reed e mi viene in mente New York. Un personaggio che mi sarebbe piaciuto vedere nella tua antologia è Willy DeVille che…
Guarda, ti interrompo perché ho un aneddoto. Nel ’92 ero a Pistoia Blues con Angelo Branduardi perché era stato invitato a fare un duetto con un artista della Louisiana, Zachary Richard, in una serata dedicata a New Orleans che culminava proprio con il concerto di Willy DeVille.
New York, Parigi e New Orleans sono le tre città che lo rappresentano. DeVille infatti rinasce a New Orleans con la trilogia di Victory Mixture, Backstreets of Desire e Loup Garou.
Esatto. Ed ero lì con Angelo e un altro mio amico che si chiama Aldo Pedron, uno storico del rock che era molto amico sia di Zachary che di Willy DeVille. E tanto per dirti il tipo, passiamo dall’hotel a Montecatini per salutarli prima della serata e DeVille era nel picco massimo secondo me di consumo di sostanze di ogni tipo, quando lo vede lo saluta “Hey Aldo, ma cosa fai qua?”. E Aldo gli dice “siamo venuti a vedere il concerto”. “Bello”, Willy gli fa, “ma quale concerto?”. Aldo gli dice “il tuo!”. Poi aspettiamo. Era una specie di New Orleans party. C’era un pullman gigantesco con Dr. John e altri musicisti che salgono a bordo. E noi dietro, con Angelo, per portarlo sul palco. E a un certo punto il pullman parte, poi torna indietro, si riferma all’hotel e scende Willy DeVille. Si era dimenticato la chitarra. E poi ho un’ultima immagine della cena dopo il concerto in un ristorante di Pistoia. Finita la cena io esco e seduto per terra, tra l’altro piovigginava, appoggiato al marciapiede, come un homeless newyorchese, eccolo: lui, DeVille!
Torniamo al tuo libro. “Happiness is a warm gun”, cantava John Lennon nel Doppio Bianco, quasi presagendo il proprio destino. “Amore, Morte & Rock ‘N’ Roll” passa in rassegna una serie cospicua di coincidenze o premonizioni avute dalle stelle del rock prima di passare a miglior vita: George Michael, famoso per la canzone Last Christmas, che muore proprio il giorno di Natale; David Bowie in scena a Broadway per la versione teatrale di “The Elephant Man” con Mark Chapman, l’assassino di John Lennon, tra il pubblico proprio in quei giorni fatidici; la copertina dell’ultimo album dei Joy Division che ritrae l’immagine di una tomba proprio prima della morte di Ian Curtis; la figlia di Whitney Houston che muore in circostanze simili a quelle della madre; la copertina di Street Survivors dei Lynyrd Skynyrd che li ritrae avvolti nelle fiamme; la paura di Marc Bolan di morire in un incidente stradale; e via dicendo. Che idea ti sei fatto di questi fenomeni di sincronicità?
Eh, questa domanda me la fanno in molti. Io non ho nessun tipo di visione, come posso dirti… junghiana? Ecco, appunto. Penso soltanto a stravaganti coincidenze, oppure a delle sfighe pazzesche. Quando muore Stevie Ray Vaughan io sono in America a fare un programma per Italia 1, e vengo raggiunto da questa notizia, ma non avevo fatto mente locale, provavo solo tanto dispiacere per un artista che ammiravo moltissimo. Riguardo alla sua morte – ma ce ne sono tantissime, come quelle che tu elenchi – io non credo a cose esoteriche. Però se ci credessi certamente potrei trovare pane per i miei denti. Ecco io penso soltanto che siano circostanze sfortunate, coincidenze come quella dei Lynyrd Skynyrd. Rimane il discorso che vivendo sulla corsia di sorpasso l’incidente è più probabile che andando piano e rispettando i limiti di velocità.
Biggie Smalls alias Notorious B.I.G. alias Cristopher Wallace – uno dei più noti gangsta rappers dell’East Coast americana – venne ucciso da quattro colpi di arma da fuoco in pieno torace quindici minuti dopo la mezzanotte del 9 marzo 1997. Le caratteristiche dell’omicidio ricalcavano quanto avvenuto sei mesi prima con l’uccisione del collega e rivale Tupac Shakur – esponente della West Coast – in seguito a tredici colpi di pistola sparati da una BMW che aveva affiancato la sua Cadillac bianca. Entrambe le esecuzioni possono forse essere spiegate alla luce della faida scoppiata tra Est e Ovest degli Stati Uniti, in seno alle comunità afroamericane che si rifacevano ai codici del gangsta rap, ma non è ancora chiaro chi fossero i mandanti. Scusa se insisto, ma la tua precisa ricostruzione degli avvenimenti tira acqua al mio mulino, alla mia tesi sulla pericolosità dell’ambiente discografico. Tra l’altro avevo letto il libro “LAbyrinth” di Randall Sullivan da te citato, davvero ben scritto.
No, non ancora.
Il film è altrettanto bello. Tra l’altro un film con Johnny Depp e Forest Whitaker e con una produzione vera, un film di budget.
Non l’hanno fatto uscire ancora?
Mai. In Italia io l’ho visto su Sky, quindi probabilmente lo riesci a recuperare. È tratto dal libro comunque, quindi è la sua riproposizione.
Tra l’altro l’autore di LAbyrinth è lo stesso che ha fatto un’indagine su Michael Jackson, la sua morte e la sua presunta pedofilia.
Adesso mi pare che sia morto il detective, recentemente. Innanzitutto, sul discorso tuo dell’ambiente pericoloso, quel tipo di ambiente sì, ma come quello della trap. La trap oggi magari la gente pensa che sia Sfera Ebbasta o le robe italiane. La storia della trap in realtà è una storia americana, di malavita, è una storia di trap house che sono i luoghi spesso fuori Atlanta dove “cucinavano”, per usare il loro linguaggio, la cocaina e il crack. È stato anche un modo per ripulire il denaro del commercio della droga in un mondo fatto di quella roba, di ghetto vero, di emarginazione, come prima ancora era stato il rap.
I Public Enemy dicevano negli anni 80 che se i neri avessero avuto la CNN non ci sarebbe stato bisogno del rap, cioè è stato un modo di esprimere il linguaggio, la cultura, le problematiche. Semmai è emblematico il caso molto più recente di XXXTentacion, un ragazzo della Florida morto perché gli hanno sparato, caso ancor più misterioso perché sono state fatte indagini di merda. Giusto per chiarire, anche se qualche mio amico pirla mi chiama lo Sherlock Holmes del rock’n’roll io non sono un detective, non sono neanche un giornalista di cronaca, sono un giornalista di musica. È vero, ho visto, anche facendo programmi televisivi, delle cose strane. Mi sono anche state mostrate. Se tu noti, in questo libro cerco di raccontare delle storie, nel modo più appassionato e mi auguro più appassionante possibile.
Love in Vain, una sceneggiatura di Alan Greensberg tuttora in cerca di un regista che la tramuti finalmente in un film, esplora le varie sfaccettature del leggendario bluesman Robert Johnson, fra cui la sua infatuazione per l’Etiopia vista in un contesto biblico e il tafarismo, che sta alla base di tutta la musica reggae. In un eventuale volume 2 del tuo lavoro, prenderesti in considerazione la figura di Bob Marley e il suo lascito, se non altro per l’alone di mistero che avvolge gli ultimi anni della sua carriera?
Ce ne sono migliaia di casi di cui parlare. Bob Marley era un caso bellissimo. E Peter Tosh, no? Peter Tosh viene ucciso, Bob Marley cade vittima di un agguato e se la scampa. Il problema è che ci sono dei limiti editoriali nel senso che la casa editrice mi dice “non superare un certo numero di battute”. Il libro l’ho voluto congegnare così, con le immagini. Facendo da tanti anni programmi e spettacoli l’idea mia è di raccontare delle storie. Quando lo faccio in televisione o in radio ho la musica, ho le immagini, sul palco idem. Questo format con le canzoni come colonna sonora vorrei che ci fosse anche nel momento della lettura. Chi legge, idealmente, dovrebbe vedere, ascoltare. Insomma è come se ricreassi in formato cartaceo uno spettacolo o un programma. Questo però ha limitato il numero delle storie possibili. Anche quelle che ho voluto incrociare. Tra le storie incrociate o incrociabili c’erano senz’altro quelle di Bob Marley e Peter Tosh, ma ce ne sarebbero state tante altre.
Ce l’abbiamo anche noi il nostro Jim Morrison. Al Verano, presso la tomba di Rino Gaetano, non ha fine il pellegrinaggio di estimatori che vengono a rendergli omaggio. Lì c’è un quaderno dove la gente può lasciare scritte delle cose, e moltissimi giovani continuano a farlo.
Fra un mese esce per la collana che dirigo per la Hoepli un libro proprio su Rino Gaetano perché a giugno sono quarant’anni dalla sua morte. Sugli italiani però, apro e chiudo, è veramente un casino, spesso i parenti e gli aventi diritto non ti fanno fare nulla per commemorare gli artisti scomparsi. È un vero peccato perché così cancelli o offuschi la storia. E questo è sbagliato. Mentre secondo me queste cose dovrebbero essere fatte proprio perché, e qua ti chiudo il discorso, il rimpianto, e questo è anche un po’ il messaggio del mio libro, è che ce ne sarebbero stati ancora di dischi di Jimi Hendrix, di Jim Morrison, di Janis Joplin, di Amy Winehouse, di Otis Redding, di tanti artisti morti, geni totali, morti giovanissimi, che hanno lasciato una traccia indelebile (Jeff Buckley ha fatto un disco soltanto), e hanno privato noi, il mondo, della loro arte. Questo è un grande rimpianto. Ma nonostante ciò la loro grandezza è stata tale che i corpi vengono sepolti o cremati ma le loro voci, come dico poeticamente nella mia introduzione, non le dimenticheremo mai. Attraverso le loro opere diventano immortali. E questa è la grande consolazione e, per legarmi al discorso appena fatto, io ho massimo rispetto per i fratelli, i mariti, le vedove, i figli, però si devono rendere conto che i loro parenti erano anche personaggi pubblici. Quindi rispetto per il privato, ma anche rispetto per gli artisti morti…non ho mai conosciuto nessun artista che non volesse avere successo, in un modo o nell’altro.
Qui una versione più estesa dell’intervista.