WHO

Per i cinquant’anni di Quadrophenia. Inciampi e morte di una storta gioventù.

Corrono cinquant’anni dalla data di pubblicazione, il 26 ottobre 1973, di Quadrophenia, sesto e ultimo grande disco degli Who. Mezzo secolo. Un classico, forse, Quadrophenia. Un fastoso e monumentale sepolcro, di certo, Quadrophenia. Con Quadrophenia gli Who, o meglio Pete Townshend che ne è – per la prima volta nella storia del gruppo – l’unico creatore ed il demiurgo assoluto, esplodono in forma ultima e definitiva, una vocazione orchestrale che aveva trovato la sua prima, compiuta manifestazione in Tommy. C’erano stati, prima ancora, i conati di due gioielli di pura follia musicale: A Quick One del 1966, che ibridava irresistibile rhythm ‘n’ blues, surf e qualche succo sfuggito all’alambicco della psichedelia britannica, e soprattutto di The Who Sell Out, dell’anno successivo, sghembo capolavoro di art rock. In entrambi prendeva forma in embrione la propensione alla suite sinfonico-operistica di Towshend. Gli oltre nove minuti di A Quick One (While He’s Away) e le tessere Rael I e II ne sono le prime, acerbe, eppure già sicure manifestazioni di quest’attitudine compositiva. Opere rock, si sarebbe detto allora, ad alta voce; oggi lo si dice un po’ meno e a bassa voce, perché proprio benissimo quel nome non portò ad un genere ricopertosi presto di enfasi, polvere e stramberia programmatica.

Cosa resta di un movimento

Mezzo secolo ed un disco che, non diversamente da Tommy, continua a splendere. Ci si domanda perché, dove stia il segreto di questo bagliore incessante. Ci si domanda ancor oggi (almeno, io me lo domando, via) da dove provenga il magnetismo che continua a riverberare da questi due fratelli così uniti, ma dai tratti così dissimili, da sembrar figli di genitori diversi. Oggi che è consumato ormai da secoli il tempo delle performance esplosive, seppellito sotto palate di terra il movimento mod degli anni Sessanta, e che sono rimasti in due di quattro gli Who sulla faccia della terra. Sghembo, imperfetto, frammentario, costellazione di schegge infiammate, Tommy; sontuoso, quadrato, epico e scolpito nello stesso marmo statuario di Who’s Next, a tratti magniloquente, ieratico e senza errori il secondo. Certo, s’è detto, la vocazione orchestrale li accomuna entrambi, ma questa è anche, più che non si pensi, un segno, una patina, un vizio, dei tempi.

Tommy e Quadrophenia, i dischi e i film

Certo, entrambi nascono portando nel DNA il gene della loro trasposizione cinematografica, in entrambi i casi riuscita per metà: anzi, per quel che riguarda il film di Franc Roddam del 1979, anche per meno di metà, a giudizio di chi scrive. Ma se nelle arterie giovani e forti di Tommy circolano gli umori più scombinati degli anni Sessanta, scorrono il soul e il rythm ‘n’ blues che avevano fecondato la musica bianca di metà decennio (invadendo anche l’album d’esordio, My Generation) e sì, anche il colorato e indisciplinato caleidoscopio della psichedelia inglese (checché ne dicesse Townshend), nelle vene esili e disseccate di Jimmy circola ormai la solitaria disillusione del riflusso. Le droghe non sono più un rito iniziatico, ma una stampella per sopravvivere alla famiglia, all’alienazione del lavoro, al disprezzo della società, ad una vita sentimentale inesistente. In Tommy sussulta un’ansia messianica, la speranza vaga e confusa di una palingenesi generazionale e collettiva (per quanto, già si sa, si sente e in qualche modo si ammette, fallace). In Tommy regna la mutevolezza formativa delle esperienze e l’eterna metamorfosi della vita. In Quadrophenia resta la statica umiliazione della routine proletaria, l’ingannevole sicurezza dei rituali del branco, l’amarezza della solitudine. Nel film di Ken Russell del 1975, Tommy ha i fluenti capelli lunghi di Roger Daltrey, e così ce lo immaginiamo nel disco, mentre uno dei nodi simbolicamente più pregnanti di Quadrophenia è Cut My Hair.

Il taglio dei capelli, ovvero l’ingresso nella maturità, è anche abbandono della dimensione della possibilità e della speranza: solo tre anni prima, appreso dell’uccisione di Bob Kennedy, un altro epocale taglio di capelli, quello di Almost Cut My Hair di David Crosby, aveva chiuso l’età dell’Acquario. Jimmy si iscrive con la sua tosatura all’elegante ed effimero dei mods, il mondo giovanile dei capelli lunghi non gli appartiene più. In Tommy ci sono ancora il pane e le rose. In Quadrophenia sogghignano ormai soltanto loro, le droghe, le box of blues o i purple hearts.

Antonio Bacciocchi: Quadrophenia. Gli Who e la storia del disco e del film che hanno definito un genere

A suo modo, e con ben altro livello di approfondimento, ci pare che questa stessa nostra domanda si ponga Antonio Bacciocchi, nel suo fresco di stampa Quadrophenia. Gli Who e la storia del disco e del film che hanno definito un genere (Interno4, 2023). Più che un libro, un libretto rosso in cui c’è tutto quel che si deve sapere del disco e del film. Chiaro, completo, schematico come una enciclopedia, preciso, ricco di spunti e documentazione (assai pregevole la raccolta di recensioni coeve, italiane e no, fra cui spicca un Bertoncelli non dei migliori). Bacciocchi squadra disco e film da ogni lato, ne ispeziona gli avantesti, ne mette in luce affinità e divergenze, genesi, idee, percorsi e ripensamenti, lungo la strada del prodotto finito.

Particolarmente centrata la contestualizzazione del fenomeno mod e del suo scorrere carsico nel mutevole mondo delle mode britanniche. Utile la riproduzione e traduzione del booklet del disco e del suggestivo ed ambiguo monologo di Jimmy, firmato da Townshend, che cala il plot del disco nell’anno 1965, quando i mod, nei loro abiti di foggia italiana, tramontavano fra i frangenti delle spiagge di Brighton e gli Who iniziavano a splendere e ad illuminare il mondo delle loro esplosioni sonore.

Quadrophenia

Lo dice uno (il sottoscritto) che ha sempre pensato, e sempre più convintamente pensa, che a Townshend del fenomeno mod non interessasse, in verità, nulla, o molto poco, vera, falsa o romanzata che sia la storiella che fa risalire la genesi di Quadrophenia alla nottata passata in spiaggia con la bionda Liza Reid, che compare nell’autobiografia di Townshend Who I Am (2012) e che Bacciocchi giustamente ripropone come avantesto dell’opera. Ugualmente, chi scrive pensa che a Townshend nulla importasse del trauma erotico e post-bellico di Tommy e delle sue menomazioni sensoriali, così come non gli interessasse nulla, o pochissimo, di flipper colorati e lambrette cromate del cazzo. Figurine, niente più; gusci semplici e fragili, metafore ben comprensibili a quella cultura giovanile per la quale Townshend, non diversamente da Bowie, scriveva; fumetti disegnati per parlar d’altro, da geniale e furbo edicolante che ai fumetti non crede, ma che di fumetti ne vende a bizzeffe (croce e delizia dell’arte nel mondo del pop, il denaro).

L’importanza del booklet

Ma il booklet, il libretto, figuriamoci se un’opera rock non può avere un libretto, torniamo al booklet. E riprendiamo il filo da lì. Scrive Townshend, ma è Jimmy che monologa: “mi sono ricordato perché sono venuto in questo bastardo scoglio. Ecco perché sono qui, la fottuta barca è andata alla deriva e… sono bloccato qui sotto la pioggia con la mia vita che lampeggia prima di me. Solo che non lampeggia, striscia. Lentamente”. Aggiungerà Townshend a riguardo: “Non so davvero come possa tornare da quello scoglio o se anneghi, vinca o perda o qualche altra cosa. Non ho davvero deciso cosa succeda. Mi piace che la decisione finale sia nelle mani dell’ascoltatore”.

Non è così, ovviamente. Quadrophenia conclude, eccome se conclude. Love reign o’er me è un mantra magnetico di resurrezione mistica. È il tuffo dell’Io nell’amore universale. È l’apertura del cuore, l’invito ad essere sommersi dall’amore, non dall’acqua del mare in tempesta che lambisce The Rock. Townshend, seguace fin dal 1968 di Meher Baba (la cui tomba aveva visitato nel 1970 e la cui influenza permea in profondità il messianismo di Tommy), a proposito dell’altra grande canzone equorea di Quadrophenia, Drowned, inizialmente concepita come una vera e propria ode a Baba, ricorderà per l’appunto l’espressione del maestro: “Io sono l’oceano dell’amore”: l’amore di Dio è l’oceano, i nostri piccoli Io sono le gocce d’acqua che lo compongono. Nell’amore si annega per risorgere, oltre i confini dell’Io e delle rocce della nostra solitaria meditazione.

E allora è, con tutta evidenza, piuttosto la vita del creatore dell’opera che non conclude, che in bilico fra individualismo nichilistico ed ansia di annegamento mistico, sta rotolando su un pericoloso piano inclinato il cui punto d’arrivo sarà il precipizio dell’overdose, nel 1979.

who quadrophenia

La risposta è dunque qui? È questa ansia di spirituale dissoluzione nel mare dell’amore divino che fa splendere ancora oggi i parafanghi cromati di Quadrophenia?  Sommessamente, crediamo di no. Crediamo che quel che ancora oggi, lontani lambrette, flipper e maestri indiani, mods eleganti e ruvidi rockers, fa brillare Quadrophenia – come, ancor più, e però insieme al fratello maggiore e minore Tommy – sia l’aver animato in maniera impareggiabile, sorretta da una creatività musicale senza cedimenti, il canovaccio di una adolescenza storta e infelice. Di aver dato suoni e voce universali alla sceneggiatura di un’imperfetta formazione, ché storti e imperfetti sono stati l’adolescenza e il tempo di formazione di ciascuno di noi. Tommy racconta, sotto il velo di una metafora neanche troppo pesante, il trauma del trapasso dall’infanzia all’adolescenza del suo autore, di un bambino che per il suo enorme naso sempre si sentì inadeguato, irriso ed escluso (e quanti specchi, guardati o infranti, in Tommy). Quadrophenia ritrova cresciuto di quattro anni quell’adolescente, ormai alle porte dell’età adulta, ma lo scopre come allora incerto, e ancor più esasperato, dall’essere di meno del gruppo a cui brama di appartenere, speranzoso di poter essere qualcosa di più, ma già certo che non riuscirà mai ad esserne alla pari.

Tommy e Jimmy

Questo cammino azzoppato sulla strada piena di curve di un’identità incerta, ferita, umiliata in famiglia e fuori, nel sesso e fra gli amici, questa inadeguatezza strutturale al mondo, fa di Tommy e Jimmy le due fotografie in sequenza di un giovane Holden impasticcato, al quale non resta un briciolo di poesia sul futuro (altro che anatre in Central Park). Pare che Townshend, e ce lo ricorda Bacciocchi, avesse scritto circa una trentina di brani per questo lavoro (e non una cinquantina, come affermava). Nell’edizione deluxe del 2011 compaiono ben 11 demos ed impressiona la loro distanza dal risultato finale (The Real Me, in special modo, col suo arrangiamento sincopato e funky non ha nulla a che spartire con la più potente canzone rock degli anni Settanta che comparirà alla fine nell’album). Per una volta, e ancora una volta, la conferma che in musica l’abito fa il monaco, eccome se lo fa, e di come la creatività di Townshend all’altezza della composizione di questo lavoro (fra il 1972 e il 1973) sprizzasse in ogni direzioni, come gli schizzi salmastri che investono Jimmy sul suo scoglio.

L’ultimo grande album degli Who

Quando il 26 ottobre 1973 esce Quadrophenia, Pete Townshend ha 28 anni, 29 anni hanno Roger Daltrey e John Entwistle, 27 Keith Moon. Dirà Townshend nel 2011: “È stato l’ultimo grande album degli Who. Non abbiamo mai registrato qualcosa di così ambizioso e audace ed è stato anche l’ultimo album in cui Keith Moon è stato in un buono stato di forma”.

Quadrophenia sarà molto più di questo, sarà il sepolcro sontuoso e marmoreo di un gruppo che non riuscirà più a trovare, veramente, il bandolo della matassa e che non uscirà vivo dagli anni Settanta. L’ingresso pieno nella maturità di Townshend e di tutti i componenti degli Who, con l’eccezione di Keith Moon, portato via nel 1978 dall’onda del suo delirio alcolico, spezzerà lo specchio dell’identità giovanile in cui Tommy e Jimmy si erano specchiati e si erano riflessi goffi e storti. Ambientato nell’estate del 1965, a quei ragazzi del 1965 Quadrophenia à dedicato fin dalle note di copertina.

Cantavano al tempo, gli Who, The Kids Are Alright e in My Generation balbettavano con furia: “I hope I die before I get old”, “spero di morire prima di diventare vecchio”. Non sapevano che il loro voto si sarebbe adempiuto ben prima di quanto avrebbero potuto immaginare, quel 26 ottobre 1973.

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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