Malibu e il talento di Anderson .Paak.
Ci sono dischi che creano ponti, che riescono a portare gli ascoltatori lì dove non avrebbero pensato di andare: è successo con l’r’n’b di Frank Ocean, con il soul-jazz di D’Angelo, con il rap di Kendrick Lamar. Malibu di Anderson .Paak è destinato a fare lo stesso, come si capisce dalle prime note di The Bird, brano di apertura di Malibu, soul come capita di ascoltare di rado, nel quale il musicista coreano-afroamericano ricorda l’infanzia e la gioventù poverissime, un tema che torna spesso, e in modo toccante, nel corso dell’ora buona del disco. Certamente la stretta collaborazione con Dr. Dre lo scorso anno su Compton gli ha offerto la possibilità di farsi conoscere più delle prove d’esordio, pure a tratti interessanti, e su Malibu .Paak afferma il suo talento con nuova sicurezza.
Una sintesi straordinaria di black music
Questo è un disco che dovrebbe parlare a quanti amano la black music anni ’60-’70 così come ai fan dell’hip-hop contemporaneo. Sostanzialmente .Paak è un cantante, ma a volte il fraseggio sincopato lo fa assimilare a un rapper, così come qualche sporadica compagnia (ScHoolboy Q, BJ the Chicago Kid, The Game, Talib Kweli e altri). Ma il disco è soprattutto suo, e su sedici canzoni non ce n’è una superflua. Pensato come un insieme più che come una raccolta di canzoni (di nuovo D’Angelo e Lamar tornano alla mente), ha tuttavia i suoi highlight: oltre alla già citata The Bird, ricordiamo almeno The Season, Put Me Thru, Room In Here; senza dimenticare che .Paak è noto per avere un orecchio attento alla scena indie (l’attacco di Parking Lot), alla psichedelia (Your Prime) e persino alla West Coast bianca anni ’70 (il coro di Celebrate fa pensare a niente meno che agli America). Insomma Malibu è un disco completo, caldo, soprendente, che davvero merita di essere ascoltato.
8,7/10