di Renato ‘Campominato’
La storia di Keith Richards è arcinota, su di lui si è detto e scritto di tutto, spesso scivolando anche nel grottesco, al quale comunque il personaggio si presta ben volentieri, da vecchio marpione dello showbiz. Ho pensato, prima di mettermi all’ascolto di Crosseyed Heart, fosse quindi una buona cosa tenermi volontariamente all’oscuro di tutti i retroscena riguardo a quello che lo ha spinto a presentarsi con questo disco da solista dopo tanto tempo, cose che avrebbero potuto fuorviare l’esame dell’aspetto strettamente musicale. Alla fine, dopo una carrellata di brani che vanno dai classiconi blues (come il pezzo che apre e dà il titolo all’album, dove ci immaginiamo il buon Keith stravaccato in poltrona, in compagnia di una chitarra acustica, un bicchiere di bourbon sul tavolino dove in un posacenere si consuma l’immancabile sigaretta…I Love My Sugar But I Love My Honey Too… e la cover di Goodnight Irene di Leadbelly), agli ovviamente presenti pezzi “alla Stones” (quelli migliori, dove malgrado le doti vocali non glielo consentano, si prende talvolta il lusso di imitare Mick Jagger con risultati più che soddisfacenti), uno sconfinamento nel territorio reggae (di quelli che ricordano la sordida e fumosa inghilterra Tatcheriana, più che le assolate terre d’origine) e sopratutto incredibili ballads (segno che malgrado con il tempo le canzoni non vengano più fuori facili come in gioventù, qualcosa di buono dai grandi artisti ce lo si deve sempre aspettare) come Robbed Blind, Suspicious e Illusion, ulteriormente impreziosita dalla partecipazione di Norah Jones, l’impressione è che questa sia di gran lunga la migliore cosa che ha a che fare con gli Stones uscita da un sacco di tempo a questa parte. L’immortalità di Keith Richards è ormai un dato di fatto ed è dunque possibile un altro disco da solista (magari tra altri vent’anni), ma nella remota ipotesi che fosse l’ultimo, questo è quello che si dice chiudere in bellezza.
8.8/10
httpv://www.youtube.com/watch?v=_btCZWi1jkg
Trouble